Jim McAuley’s second solo release, Gongfarmer 36 is a followup to 2005’s Gongfarmer 18, which introduced the LA guitarist’s avant-acoustica to a wider audience.
A mixture of inner- and outer-spaces, McAuley’s musical cosmology is both sparse and expansive, constrained and amoebic, a sound grounded in bareboned Mississippi Delta slide blues, often hunkering on a single-note drone, yet at the same time embracing an ethic of never-repeat-anything-you-did-before…ever. The results are not easy to describe, but the artistry is palpable. Tracks like “Second Blooming” and “Una Lunga Canzone” evince an affinity for flamenco techniques like rasqueado (finger strums), tremolo and golpas (rapping) whereas “Nika’s Waltz” sounds a bit like the opening of a raga performed on sarod (Indian fretless lute). There are many ‘blue notes’: the microtonal clusters over Travis-picked bass notes on “Blues for John Carter”; the swooping Hawaiian steel slides on “The Eyelids of Buddha” and the diddley- bow triplets of “Saltarello/Jumpstart”. On “Another November Night” McAuley’s unorthodox orchestration mimics a koto while the shuffling and scratching of “Joy Buzzer” are more ambiguous. But these are only approximations of what you might hear for yourself
Laboule
Laboule è Paolo Novellino: nasce a Milano nel 1984 e cresce in Valtellina fra monti e arrampicate sugli alberi.
Chitarrista di nascita e polistrumentista per necessità e spirito d’avventura, passa il tempo in valle ad esplorare la chitarra suonando e fondando svariate formazioni musicali.
Dal 2007 al 2010 co-produce due dischi come batterista per i Fuseaux e nello stesso periodo inizia la collaborazione con il laboratorio creativo People From the Mountains.
Dopo l’ascolto di “Rocky Mountain raga” di Robbie Basho torna alla chitarra con lo pseudonimo LaBoule, con il quale produce l’omonimo ep “LABOULE” promosso da concerti in tutta Italia ed in Francia, Olanda e Germania come opening in act per due tour di Musica da Cucina.
Nel 2013 Esce “Refugio” , disco d’esordio per Long Song Records.LABOULE is Paolo Novellino: he was born in Milan in 1984 and grew up in Valtellina, among the mountains and trees to be climbed.
Guitarist by birth and poly-instrumentalist by necessity, with the desire for adventure, he spent his time in the valley exploring the guitar and founding several bands as a poly-instrumentalist.
But after listening to “Rocky Mountain raga” by Robbie Basho, he got back to the guitar with the stage name LABOULE. As LABOULE, he has self-produced an EP with the same name, which has been promoted with several concerts as the opening act for Musica da Cucina.
orynx-improvandsounds.blogspot.be – Gongfarmer 36
orynx-improvandsounds.blogspot.be – Two For Joyce
Refugio
Registrato in un rifugio alpino alle pendici del monte Grona con una chitarra acustica e poco altro, Refugio è la ricerca dell’interstizio fra due catene montuose, la scoperta di un orizzonte sonoro antico, polveroso e bagnato dal mare in cui trovare asilo, radici e prezioso ricovero per la melanconia.
Grazie all’utilizzo di accordature aperte i brani partono da una concezione modale della musica, generatrice di una base circolare per la forma canzone e per l’improvvisazione.
La ricerca di spazi, pause e sospensioni del suono si alterna a piccole rivelazioni che parlano di supposizioni, di colori, dell’arte di arrangiarsi.
LABOULE TRAILER from paolonove on Vimeo.REFUGIO. This album was recorded under the mountain dew among the Alps, on the side of Mount Grona, with an acoustic guitar and a few other instruments.
Refugio is a quest in the intersection of two mountain chains, the disclosure of an ancient, dusty and seaside soundscape where it’s possible to discover the necessary asylum to grow and find a precious refuge for melancholy.
LABOULE is Paolo Novellino: he was born in Milan in 1984 and grew up in Valtellina, among the mountains and trees to be climbed.
Guitarist by birth and poly-instrumentalist by necessity, with the desire for adventure, he spent his time in the valley exploring the guitar and founding several bands as a poly-instrumentalist.
But after listening to “Rocky Mountain raga” by Robbie Basho, he got back to the guitar with the stage name LABOULE. As LABOULE, he has self-produced an EP with the same name, which has been promoted with several concerts as the opening act for Musica da Cucina.
LABOULE TRAILER from paolonove on Vimeo.
Two For Joyce – Musica Jazz
Nel quarto [“Two For Joyce” n.d.r.] c’è un concerto triestino con Tippett (del 18-5-12), intensamente dedicato a James Joyce e perfettamente registrato. È forse quello in cui l’arte del contrabbas- sista si offre con maggiore ostensività, complice un partner la cui fantasia e il cui senso drammatico, specie quando sono declinati percussivamente, sembrano appartenere per elezione a quel nido di tensioni che diventa il contrabbasso del Maier più concentrato. I gesti precisi e raffinati del suo pizzicato fanno rimbalzare suoni duri e corti, dal timbro ambrato, stondati e ritmicamente carichi; quasi refrattari ai larghi tagli armonici. Con l’arco disegnano gracili ragnatele che oscillano e si afflosciano nel silenzio, oppure produ- cono violente strappate dal timbro sempre ricercato.
Nel quarto [“Two For Joyce” n.d.r.] c’è un concerto triestino con Tippett (del 18-5-12), intensamente dedicato a James Joyce e perfettamente registrato. È forse quello in cui l’arte del contrabbas- sista si offre con maggiore ostensività, complice un parter la cui fantasia e il cui senso drammatico, specie quando sono declinati percussivamente, sembrano appartenere per elezione a quel nido di tensioni che diventa il contrabbasso del Maier più concentrato. I gesti precisi e raffinati del suo pizzicato fanno rimbalzare suoni duri e corti, dal timbro ambrato, stondati e ritmicamente carichi; quasi refrattari ai larghi tagli armonici. Con l’arco disegnano gracili ragnatele che oscillano e si afflosciano nel silenzio, oppure produ- cono violente strappate dal timbro sempre ricercato.
Haptikon
Edizione limitata, 500 copie numerate e firmate da E#!
“Haptikon”, il nuovo cd di Elliott Sharp, un insieme di pezzi di “chitarra-molto-elettrica” accompagnati da elaborazioni su pc.
“Haptikon” può essere considerato come una emanazione del progetto di E # “Tectonics”.
Dove “Tectonics” era una forma di jungle-noise techno-psichedelica, giocata su sassofoni e chitarre che interagiscono elettronicamente con groove e processi computerizzati, con “Haptikon” il focus è maggiormente su un approccio più melodico e lirico. E rende omaggio alla tradizione dell’improvvisazione nel jazz, nel blues, nel rock, nella musica indiana, e perfino nel country & western!
I risultati sono di portata quasi cinematografica, e danno la sensazione di essere eseguiti da una band completa.
Il virtuosismo alla chitarra di Sharp e la sua originalità come compositore sono in piena evidenza in “Haptikon”.
Limited edition, 500 copies only, signed by E# and numbered!
Haptikon is a set of very-electric-guitar pieces accompanied by computer. Haptikon may be heard as an outgrowth of E#’s Tectonics project.
Where Tectonics was a form of psychedelic noise jungle techno played on both saxophones and guitars interacting electronically with computerized grooves and processing, with Haptikon, the focus is on a more melodic and lyrical approach.
E# pays homage to improvised traditions in jazz, blues, rock, Indian music, and even country & western! The results are cinematic in scope and give the feeling of a full band. Sharp’s virtuosity on guitar and originality as a composer are in full evidence on Haptikon.
relics-controsuoni.blogspot.ru – Two For Joyce
Improvvisazione jazz forse no, usiamo un termine più generale: improvvisazione musicale. Fatta da due artisti che possiedono le tre cose fondamentali per essere – secondo una definizione cara a noi esseri umani – bravi musicisti. Le tre cose in questione sono la tecnica, l’esperienza e, la più importante, la curiosità.Keith Tippett è attivo da tanto di quel tempo che forse non se lo ricorda più: è molto probabile che ormai ragioni in termini di concerti piuttosto che di calendario: Keith, oltre che pilastro del pianismo avant-jazz inglese ed europeo da oltre quarant’anni, ha la particolarità di riuscire a dare vita ad un pianismo tanto inventivo e grandioso quanto profondo ed austero.
A lui, in questo bellissimo live a due registrato a Trieste, si unisce Giovanni Maier, uno dei migliori bassisti jazz italiani attivo da almeno vent’anni. Keith e Giovanni si conoscono da molto tempo e insieme hanno dato vita all’ensemble “Viva La Black” del trombettista Pino Minafra. Eccoci, dunque: questo live a due, un’esibizione immersa nei pentagrammi invisibili della sera. Una performance di 50 minuti di musica improvvisata, una sola affascinante traccia nella quale i due artisti sfoderano un’enciclopedia di gemme esecutive di rara bellezza.
Anche la copertina dell’album è particolarmente bella. Si può immediatamente comprendere che tipo di disco sia questo: uno di quelli che bisogna davvero ascoltare, e non lasciare in sottofondo, proprio per cogliere tutte le fughe, tutte le stonature attivamente volute, i guizzi e le invenzioni di pochi secondi. Il basso di Maier è molto corposo, ingombrante, e pare possedere un’infinita gamma di soluzioni e suoni: pizzicato, percosso, malmenato, accarezzato, abbracciato, picchettato. Tutti gli spigoli sonori creati dal basso vengono accompagnati dal trillo rapido o lento del piano di Tippett, che pare avere tantissime dita.
Non c’è uno strumento che fa l’accompagnamento o la base e l’altro è protagonista: è un gioco a due, si va di pari passo, e se c’è una presa di potere da parte di uno dei due, dura comunque poco. E’ un dialogo, come può accadere spesso nel jazz d’avanguardia, ma anche in quello più classico.
I bassi del basso, i picchi del piano. Due facce della stessa medaglia, che osano strade ardite, oppure rilassano l’orecchio con morbidi suoni. Si coglie facilmente quanto grande sia l’intesa fra Tippett e Maier: solo a metà traccia capiamo che il terzo strumento siamo noi, col nostro respiro curioso, mentre ci perdiamo un poco nelle possibilità umane di creare.
Gli uomini hanno costruito le città, hanno dato vita a chiese di rara bellezza e opere d’arte dal valore inestimabile, insomma hanno generato bellezza, sempre con i loro cuori e le loro mani. Nessuno strato soprannaturale, nessuna magia. Solo tessuti muscolari e cervello. La bellezza. E poi, appunto, poi c’è la musica. C’è un live come questo. E quindi c’è ancora speranza.
Improvvisazione jazz forse no, usiamo un termine più generale: improvvisazione musicale. Fatta da due artisti che possiedono le tre cose fondamentali per essere – secondo una definizione cara a noi esseri umani – bravi musicisti. Le tre cose in questione sono la tecnica, l’esperienza e, la più importante, la curiosità.Keith Tippett è attivo da tanto di quel tempo che forse non se lo ricorda più: è molto probabile che ormai ragioni in termini di concerti piuttosto che di calendario: Keith, oltre che pilastro del pianismo avant-jazz inglese ed europeo da oltre quarant’anni, ha la particolarità di riuscire a dare vita ad un pianismo tanto inventivo e grandioso quanto profondo ed austero.
A lui, in questo bellissimo live a due registrato a Trieste, si unisce Giovanni Maier, uno dei migliori bassisti jazz italiani attivo da almeno vent’anni. Keith e Giovanni si conoscono da molto tempo e insieme hanno dato vita all’ensemble “Viva La Black” del trombettista Pino Minafra. Eccoci, dunque: questo live a due, un’esibizione immersa nei pentagrammi invisibili della sera. Una performance di 50 minuti di musica improvvisata, una sola affascinante traccia nella quale i due artisti sfoderano un’enciclopedia di gemme esecutive di rara bellezza.
Anche la copertina dell’album è particolarmente bella. Si può immediatamente comprendere che tipo di disco sia questo: uno di quelli che bisogna davvero ascoltare, e non lasciare in sottofondo, proprio per cogliere tutte le fughe, tutte le stonature attivamente volute, i guizzi e le invenzioni di pochi secondi. Il basso di Maier è molto corposo, ingombrante, e pare possedere un’infinita gamma di soluzioni e suoni: pizzicato, percosso, malmenato, accarezzato, abbracciato, picchettato. Tutti gli spigoli sonori creati dal basso vengono accompagnati dal trillo rapido o lento del piano di Tippett, che pare avere tantissime dita.
Non c’è uno strumento che fa l’accompagnamento o la base e l’altro è protagonista: è un gioco a due, si va di pari passo, e se c’è una presa di potere da parte di uno dei due, dura comunque poco. E’ un dialogo, come può accadere spesso nel jazz d’avanguardia, ma anche in quello più classico.
I bassi del basso, i picchi del piano. Due facce della stessa medaglia, che osano strade ardite, oppure rilassano l’orecchio con morbidi suoni. Si coglie facilmente quanto grande sia l’intesa fra Tippett e Maier: solo a metà traccia capiamo che il terzo strumento siamo noi, col nostro respiro curioso, mentre ci perdiamo un poco nelle possibilità umane di creare.
Gli uomini hanno costruito le città, hanno dato vita a chiese di rara bellezza e opere d’arte dal valore inestimabile, insomma hanno generato bellezza, sempre con i loro cuori e le loro mani. Nessuno strato soprannaturale, nessuna magia. Solo tessuti muscolari e cervello. La bellezza. E poi, appunto, poi c’è la musica. C’è un live come questo. E quindi c’è ancora speranza.
Rockerilla – Two For Joyce
Serve poco al pianista inglese e al contrabbassista giuliano per trovare la giusta intesa nel nome di Joyce: la traccia unica registrata nel corso de Le Nuove Rotte del Jazz 2012 a Trieste parte da piani apparentemente distanti (sgocciolature free del pianoforte, rimestar di corde sullo sfondo) per sfociare in un dialogo dapprima intimo, poi più vivace e contrastato, sempre attento a un ascolto reciproco che data alla militanza comune nei Viva La Black di Moholo. Tra rimandi e citazioni, accordi ribattuti e arpeggi lirici, camerismo classico e temi folk sudafricani, fragore rumorista e divagazioni ambientali, si procede in un susseguirsi di quadretti vibranti e suggestivi. GEMMA DI PALPITANTE INTENSITÀ.Serve poco al pianista inglese e al contrabbassista giuliano per trovare la giusta intesa nel nome di Joyce: la traccia unica registrata nel corso de Le Nuove Rotte del Jazz 2012 a Trieste parte da piani apparentemente distanti (sgocciolature free del pianoforte, rimestar di corde sullo sfondo) per sfociare in un dialogo dapprima intimo, poi più vivace e contrastato, sempre attento a un ascolto reciproco che data alla militanza comune nei Viva La Black di Moholo. Tra rimandi e citazioni, accordi ribattuti e arpeggi lirici, camerismo classico e temi folk sudafricani, fragore rumorista e divagazioni ambientali, si procede in un susseguirsi di quadretti vibranti e suggestivi. GEMMA DI PALPITANTE INTENSITÀ.
labottegadihamlin.it – Dot to Dot
Piccoli fenomeni (italiani) crescono. Che poi, le parentesi qui si possono tranquillamente omettere, perché leLilies on Mars non suonano come le solite cose nostrane. Il che, vista l’ambizione dichiaratamente cosmopolita ed internazionalista del progetto, ostentata sin sin dal debutto (l’omonimo LP del 2008), non può che essere un bene. Messo da parte ogni residuo provincialismo, Dot to dot vola alto. Fa sua la lezione diCocteau Twins, dei songwriter più visionari (Syd Barrett) e degli shoegazer stile Slowdive per imbastire un flusso celestial-ambientale di riverberi, droni, melodiee eteree, visioni oniriche, con testi pregni di “sentimento oceanico”. Rispetto ai predecessori (il succitato debut e Wish you were a pony), le trame sono più eteree, soporifere: meno elettricità, più elettronica. Soprattutto, Lisa Masia e Marina Cristofalo garantiscono una maggiore omogeneità e coesione del loro ordito sonoro: sono praticamente nulli gli sbandamenti, i punti deboli o le incertezze nelle tredici tracce.
Dot to dot, insomma, è un lavoro adulto. Autonomo al punto tale che il featuring di Franco Battiato in Oceanic landscape rischia di risultare quello sì un po’ ridondante. Ma è un eccesso di zelo perdonabile: come fai a dire di no a Battiato, soprattutto se è il tuo mentore e una delle tue influenze dichiarate (sul primo LP le due avevano coverizzato No u turn)? Il tono misticheggiante la fa da padrone in tutto il disco, ma senza pedanterie o forzature: Dram of bees è una delizia di battiti monotoni, vocals fluttuanti e sfumature cupe, con un neppure troppo velato retrogusto folk. L’iterazione ritmica è una delle chiavi di volta di No way, la quale, però, lavora soprattutto su droni e delicati fraseggi di synth per imbastire una nenia celestiale. Una bruma spettrale avvolge anche So far dear America, lenta e solenne, mentre Entre-temps ammalia con una danza persino sensuale, infittita da un nugolo di sei corde tremolanti. Non mancano i passaggi più sporchi: la coda di Interval 2, ad esempio, o Martians, che gioca con pulsazioni new-wave e durezze techno, sospinte da un organo visionario.
Le Lilies on Mars, insomma, si districano tra minimalismi, fuggevolezze ambientali e spasmi d’avanguardia rock-elettronica per cesellare tredici quadretti ricchi di fascino, soprattutto contraddistinti da un tratto personale, articolato in maniera funzionale alle esigenze espressive, dunque non aridamente virtuosistico. Bel passo avanti per un act da seguire, a questo punto, con la massima attenzione.Piccoli fenomeni (italiani) crescono. Che poi, le parentesi qui si possono tranquillamente omettere, perché leLilies on Mars non suonano come le solite cose nostrane. Il che, vista l’ambizione dichiaratamente cosmopolita ed internazionalista del progetto, ostentata sin sin dal debutto (l’omonimo LP del 2008), non può che essere un bene. Messo da parte ogni residuo provincialismo, Dot to dot vola alto. Fa sua la lezione diCocteau Twins, dei songwriter più visionari (Syd Barrett) e degli shoegazer stile Slowdive per imbastire un flusso celestial-ambientale di riverberi, droni, melodiee eteree, visioni oniriche, con testi pregni di “sentimento oceanico”. Rispetto ai predecessori (il succitato debut e Wish you were a pony), le trame sono più eteree, soporifere: meno elettricità, più elettronica. Soprattutto, Lisa Masia e Marina Cristofalo garantiscono una maggiore omogeneità e coesione del loro ordito sonoro: sono praticamente nulli gli sbandamenti, i punti deboli o le incertezze nelle tredici tracce.
Dot to dot, insomma, è un lavoro adulto. Autonomo al punto tale che il featuring di Franco Battiato in Oceanic landscape rischia di risultare quello sì un po’ ridondante. Ma è un eccesso di zelo perdonabile: come fai a dire di no a Battiato, soprattutto se è il tuo mentore e una delle tue influenze dichiarate (sul primo LP le due avevano coverizzato No u turn)? Il tono misticheggiante la fa da padrone in tutto il disco, ma senza pedanterie o forzature: Dram of bees è una delizia di battiti monotoni, vocals fluttuanti e sfumature cupe, con un neppure troppo velato retrogusto folk. L’iterazione ritmica è una delle chiavi di volta di No way, la quale, però, lavora soprattutto su droni e delicati fraseggi di synth per imbastire una nenia celestiale. Una bruma spettrale avvolge anche So far dear America, lenta e solenne, mentre Entre-temps ammalia con una danza persino sensuale, infittita da un nugolo di sei corde tremolanti. Non mancano i passaggi più sporchi: la coda di Interval 2, ad esempio, o Martians, che gioca con pulsazioni new-wave e durezze techno, sospinte da un organo visionario.
Le Lilies on Mars, insomma, si districano tra minimalismi, fuggevolezze ambientali e spasmi d’avanguardia rock-elettronica per cesellare tredici quadretti ricchi di fascino, soprattutto contraddistinti da un tratto personale, articolato in maniera funzionale alle esigenze espressive, dunque non aridamente virtuosistico. Bel passo avanti per un act da seguire, a questo punto, con la massima attenzione.