Technicolor – Downbeat

It’s old news by now that the ’70s are back in a big way. Italian bassist Giovanni Maier has boned up on the fusion masters, and this two- disc set featuring his Technicolor quartet displays the lessons he has learned. But while he has been an attentive student, he hasn’t heeded the cautionary tales his forebears provide, and there is much here that stumbles over the familiar obstacles of excess and indulgence. Aside from three group improvisations, all of the tunes were penned by Maier, and the Weather Report influence is never out of mind for long, even when the music visits the outerspace orbit of Sun Ra’s Arkestra. The tunes split fairly evenly between atmospheric jams and pop-funk grooves, the former ending up the more successful; Maier’s melodies strive for Joe Zawinul-style hummability but veer toward anthemic simplicity, resulting too often in bubblegum-prog that cloys rather than catches. On disc one, Featuring Marc Ribot, Maier creates settings for the Downtown guitar virtuoso and Italian counterpart Simone Massaron to roam free, for better or worse. Ribot gets the chance to show off several of his familiar guises, from bludgeoning metal gymnastics to mournful folk-sure twang. He pairs well here with Alfonso Santimone, whose laptop conjures a decaying industrial landscape, which frames some of the guitarist’s harshest explorations. The second disc, A Turtle Soup, foregoes the guest stars and let the quartet come to the fore. Throughout both discs, Maier cedes the spotlight, especially to his dual-keyboard frontline: Giorgio Pacorig on Rhodes and Farfisa and Santimone on a variety of modern and retro devices. But the leader’s subtle work is the group’s backbone, at times beating in lockstep with drummer Zeno de Rossi, at others scything melodic paths through the synth-drone undergrowth.It’s old news by now that the ’70s are back in a big way. Italian bassist Giovanni Maier has boned up on the fusion masters, and this two- disc set featuring his Technicolor quartet displays the lessons he has learned. But while he has been an attentive student, he hasn’t heeded the cautionary tales his forebears provide, and there is much here that stumbles over the familiar obstacles of excess and indulgence. Aside from three group improvisations, all of the tunes were penned by Maier, and the Weather Report influence is never out of mind for long, even when the music visits the outerspace orbit of Sun Ra’s Arkestra. The tunes split fairly evenly between atmospheric jams and pop-funk grooves, the former ending up the more successful; Maier’s melodies strive for Joe Zawinul-style hummability but veer toward anthemic simplicity, resulting too often in bubblegum-prog that cloys rather than catches. On disc one, Featuring Marc Ribot, Maier creates settings for the Downtown guitar virtuoso and Italian counterpart Simone Massaron to roam free, for better or worse. Ribot gets the chance to show off several of his familiar guises, from bludgeoning metal gymnastics to mournful folk-sure twang. He pairs well here with Alfonso Santimone, whose laptop conjures a decaying industrial landscape, which frames some of the guitarist’s harshest explorations. The second disc, A Turtle Soup, foregoes the guest stars and let the quartet come to the fore. Throughout both discs, Maier cedes the spotlight, especially to his dual-keyboard frontline: Giorgio Pacorig on Rhodes and Farfisa and Santimone on a variety of modern and retro devices. But the leader’s subtle work is the group’s backbone, at times beating in lockstep with drummer Zeno de Rossi, at others scything melodic paths through the synth-drone undergrowth.

Rings Of Fire – Buscadero

In questa rubrica, non molto spesso ci occupiamo di jazz e dintorni, so- prattutto perché il sottoscritto non è un vero esperto in materia. La scena italiana è però vitalissima, con musicisti ed etichette di valore veramente eccelso. E’ il caso delle produzioni della Long Song Records ad esempio, un’etichetta gestita con grande passione e che si sta imponendo sempre più tra gli appassionati di musica senza steccati. Come prova esemplare di quanto stiamo dicendo, arriva in nostro soccorso l’ultimo parto escogitato da Fabrizio Perissinotto per la sua label: si tratta di un album firmato a quattro mani dal sassofonista Daniele Cavallanti e dal batterista e percussionista Tiziano Tononi. In Rings Of Fire (Long Song/Audioglobe), i due sono attorniati da un manipolo di ottimi musicisti, dalla strepitosa violinista Jenny Scheinman al percussionista Pacho, per arrivare ad autentici astri nascenti dell’avant-jazz nostrano come Achille Succi (clarinetto basso e sax alto), Emanuele Parrini (viola), Massimo Mariani (chitarra elettrica) e Giovanni Maier (contrabbasso e basso elettrico). Le due mirabolanti suite che riempoino i quasi ottanta minuti del disco – divise in svariate tracce, con la prima a firma Cavallanti e la seconda opera di Tononi – vivono dell’incredibile dialogo che riescono ad instaurare fra loro questi favolosi strumentisti. La sfida – vinta pienamente – era riuscire ad armonizzare [e parti scritte e pre-arrangiate a monte, con il funambolico lirismo ed estro derivante dalle improvvisazioni. Quello che alla fine si può sentire fra questi “solchi” è una musica dal grande dinamismo, dotata di una seducente visionarietà, in cui non solo gli strumenti, ma anche le varie suggestioni musicali – ci sono evidenti tracce di jazz coltraniano, dissonanze avant, sedimentazioni cameristiche, a tratti persino qualche spolverata rock, tra le altre cose – s’incastrano con una perfezione matematica che non suona mai fredda e calcolata, ma che piuttosto, in qualsiasi momento, è capace di sviluppare un discorso musicare caldo, coerente, altamente creativo ed illuminato. Spero di essere riuscito ad incuriosirvi a sufficienza, ne vale la pena. (****)In questa rubrica, non molto spesso ci occupiamo di jazz e dintorni, so- prattutto perché il sottoscritto non è un vero esperto in materia. La scena italiana è però vitalissima, con musicisti ed etichette di valore veramente eccelso. E’ il caso delle produzioni della Long Song Records ad esempio, un’etichetta gestita con grande passione e che si sta imponendo sempre più tra gli appassionati di musica senza steccati. Come prova esemplare di quanto stiamo dicendo, arriva in nostro soccorso l’ultimo parto escogitato da Fabrizio Perissinotto per la sua label: si tratta di un album firmato a quattro mani dal sassofonista Daniele Cavallanti e dal batterista e percussionista Tiziano Tononi. In Rings Of Fire (Long Song/Audioglobe), i due sono attorniati da un manipolo di ottimi musicisti, dalla strepitosa violinista Jenny Scheinman al percussionista Pacho, per arrivare ad autentici astri nascenti dell’avant-jazz nostrano come Achille Succi (clarinetto basso e sax alto), Emanuele Parrini (viola), Massimo Mariani (chitarra elettrica) e Giovanni Maier (contrabbasso e basso elettrico). Le due mirabolanti suite che riempoino i quasi ottanta minuti del disco – divise in svariate tracce, con la prima a firma Cavallanti e la seconda opera di Tononi – vivono dell’incredibile dialogo che riescono ad instaurare fra loro questi favolosi strumentisti. La sfida – vinta pienamente – era riuscire ad armonizzare [e parti scritte e pre-arrangiate a monte, con il funambolico lirismo ed estro derivante dalle improvvisazioni. Quello che alla fine si può sentire fra questi “solchi” è una musica dal grande dinamismo, dotata di una seducente visionarietà, in cui non solo gli strumenti, ma anche le varie suggestioni musicali – ci sono evidenti tracce di jazz coltraniano, dissonanze avant, sedimentazioni cameristiche, a tratti persino qualche spolverata rock, tra le altre cose – s’incastrano con una perfezione matematica che non suona mai fredda e calcolata, ma che piuttosto, in qualsiasi momento, è capace di sviluppare un discorso musicare caldo, coerente, altamente creativo ed illuminato. Spero di essere riuscito ad incuriosirvi a sufficienza, ne vale la pena. (****)

Rings Of Fire – Rockerilla

Per un amante del Miles Davis più sperimentale e free (ma mettiamoci dentro anche l’Ornette Coleman più innovativo) parlare di “Rings of Fire” è come incontrare un vecchio amico, la stessa familiarità di un rapporto che non ha bisogno di convenevoli, ma che si nutre di abbracci, sorrisi e buone chiacchiere. Non sfugge a questa considerazione la nuova collaborazione tra il sassofonista Daniele Cavallanti e il percussionista Tiziano Tononi, due nomi bene conosciuti nel circuito jazz italiano. Un incontro artistico coraggioso e stimolante che, ancora una volta, ma non ce n’era bisogno, colloca la Long Song come una delle più importanti in Italia tra le etichette attente ai nuovi fermenti del jazz elettrico e della musica di avanguardia. Un coraggio che non smetteremo mai di elogiare per la passione e la qualità delle produzioni Anche per “Rings Of Fire’ non si tratta di un disco di immediata assimilazione, perlomeno per chi non bazzica abitualmente le strade tortuose ma soddisfacenti di cui abbiamo parlato in precedenza. Un disco diviso in due parti: una prima dedicata sembra a suggestioni cinematografiche, trattandosi di sei “Faces”, che hanno quasi tutte come titoli i nomi di registi (“Cassavetes” e “Jannush” le più riuscite), la seconda una lunga suite in tre elementi che va ascoltata, perché descriverla sarebbe riduttivo, tanta la quantità di cambi di tempo, idee, fraseggi, stili che la compongono. E’ proprio questo il modo per amare un disco come “Rings Of Fire”, perdersi tra le sue note.Per un amante del Miles Davis più sperimentale e free (ma mettiamoci dentro anche l’Ornette Coleman più innovativo) parlare di “Rings of Fire” è come incontrare un vecchio amico, la stessa familiarità di un rapporto che non ha bisogno di convenevoli, ma che si nutre di abbracci, sorrisi e buone chiacchiere. Non sfugge a questa considerazione la nuova collaborazione tra il sassofonista Daniele Cavallanti e il percussionista Tiziano Tononi, due nomi bene conosciuti nel circuito jazz italiano. Un incontro artistico coraggioso e stimolante che, ancora una volta, ma non ce n’era bisogno, colloca la Long Song come una delle più importanti in Italia tra le etichette attente ai nuovi fermenti del jazz elettrico e della musica di avanguardia. Un coraggio che non smetteremo mai di elogiare per la passione e la qualità delle produzioni Anche per “Rings Of Fire’ non si tratta di un disco di immediata assimilazione, perlomeno per chi non bazzica abitualmente le strade tortuose ma soddisfacenti di cui abbiamo parlato in precedenza. Un disco diviso in due parti: una prima dedicata sembra a suggestioni cinematografiche, trattandosi di sei “Faces”, che hanno quasi tutte come titoli i nomi di registi (“Cassavetes” e “Jannush” le più riuscite), la seconda una lunga suite in tre elementi che va ascoltata, perché descriverla sarebbe riduttivo, tanta la quantità di cambi di tempo, idee, fraseggi, stili che la compongono. E’ proprio questo il modo per amare un disco come “Rings Of Fire”, perdersi tra le sue note.

The Ill-Tempered Piano – Signal To Noise Review

Nicola Cipani’s ill-tempered piano is an instrument that is rarely played, hard to find and hauntingly beautiful. Neither the prepared piano (in the Cage tradition) nor the unprepared piano (in an orthodox, say Marian McPartland, manner), it’s what might be called an “unprepared piano”: an instrument not in any condition for a traditional concerto. Unprepared piano players are rare; pemaps the only other musician to make a name on the instrument is Australian Ross Bolleter of the World Association for Ruined Piano Studies (an institution which seems to have two members, Cipani not being the other), whose expenments on pianos left to decay and rot have been collected on the excellent 2006 Emanem release Secret Sandhills and Satellites. But with the unprepared piano, as with any per- fonmance, what counts is the singer, not the song. Each weathered keyboard must, like a handmade steel drum, be approached on its own terms to leam the idiosyncrasies of the instrument. Where Bolleter seems to strive for being as pianistic as possible—playing slow suites on his found detritus— Cipani seems to seek out the most off sounds he can find. The 24 brief tracks on The 111- Tempered Piano, recorded on found instruments in New Yorl< City, are achingly gorgeous. To say they often sound like a gamelan is something of a c1iché in writing about experimen- tal music (rather akin to “tastes Iike chicken”) but the melodie percussion of his improvisations makefor an unusual and wonderfullisten.Nicola Cipani’s ill-tempered piano is an instrument that is rarely played, hard to find and hauntingly beautiful. Neither the prepared piano (in the Cage tradition) nor the unprepared piano (in an orthodox, say Marian McPartland, manner), it’s what might be called an “unprepared piano”: an instrument not in any condition for a traditional concerto. Unprepared piano players are rare; pemaps the only other musician to make a name on the instrument is Australian Ross Bolleter of the World Association for Ruined Piano Studies (an institution which seems to have two members, Cipani not being the other), whose expenments on pianos left to decay and rot have been collected on the excellent 2006 Emanem release Secret Sandhills and Satellites. But with the unprepared piano, as with any per- fonmance, what counts is the singer, not the song. Each weathered keyboard must, like a handmade steel drum, be approached on its own terms to leam the idiosyncrasies of the instrument. Where Bolleter seems to strive for being as pianistic as possible—playing slow suites on his found detritus— Cipani seems to seek out the most off sounds he can find. The 24 brief tracks on The 111- Tempered Piano, recorded on found instruments in New Yorl< City, are achingly gorgeous. To say they often sound like a gamelan is something of a c1iché in writing about experimen- tal music (rather akin to “tastes Iike chicken”) but the melodie percussion of his improvisations makefor an unusual and wonderfullisten.

Craig Green + David King – AAJ New York

While the best solo jazz recordings reveal an artist’s inner thoughts, the most outstanding duos endure as memorable conversations. Guitarist Craig Green and drummer David King allow us to eavesdrop on a wide variety of semi-structured discourses with this stylistically varied self-titled release. King holds forth on drums, percussion, vibes and piano and, as is apropos of this type of project, displays sides of himself that are not all that obvious in his main gig with The Bad Plus. Green likewise strays from electric and acoustic guitars by mixing in some electronics adding to the already broad sonic patois.

“Thin Blue Ice” begins this set as a reflective piano soliloquy that is augmented by electronic coloration while closer “Border Town 1929” reverses roles as Green’s guitar delivers a monologue supported by drums and electronics. What makes this an engaging listen though is the fluency that these two musicians articulate on the in-between cuts: “Faux Hawk” presents an escalating give and take between rock guitar and drums; “Part 2” is a minimalist interaction between guitar and vibes; “Rainey Qunciera” is a beautiful vibes and acoustic guitar Spanish language interchange and “Walk Left” portrays a tension filled electric guitar/piano staccato chat.

Three extended pieces allow for some linguistic boundary-stretching as the spacey argot of “Cinematic”, the old-timey meets-heavy-metal idiom of “Praise the Shadows” and a “Snow Plow” that learns to speak a funky Latin slang. This is improvised music that keeps the flashy solos to a minimum, eschews the head-solo-head form and in the process achieves a depth of expression.

There are no hackneyed phrases here and the result is original and fresh with few clichés. Green and King are well spoken in their discordant dialects and disparate tongues.While the best solo jazz recordings reveal an artist’s inner thoughts, the most outstanding duos endure as memorable conversations. Guitarist Craig Green and drummer David King allow us to eavesdrop on a wide variety of semi-structured discourses with this stylistically varied self-titled release. King holds forth on drums, percussion, vibes and piano and, as is apropos of this type of project, displays sides of himself that are not all that obvious in his main gig with The Bad Plus. Green likewise strays from electric and acoustic guitars by mixing in some electronics adding to the already broad sonic patois.

“Thin Blue Ice” begins this set as a reflective piano soliloquy that is augmented by electronic coloration while closer “Border Town 1929” reverses roles as Green’s guitar delivers a monologue supported by drums and electronics. What makes this an engaging listen though is the fluency that these two musicians articulate on the in-between cuts: “Faux Hawk” presents an escalating give and take between rock guitar and drums; “Part 2” is a minimalist interaction between guitar and vibes; “Rainey Qunciera” is a beautiful vibes and acoustic guitar Spanish language interchange and “Walk Left” portrays a tension filled electric guitar/piano staccato chat.

Three extended pieces allow for some linguistic boundary-stretching as the spacey argot of “Cinematic”, the old-timey meets-heavy-metal idiom of “Praise the Shadows” and a “Snow Plow” that learns to speak a funky Latin slang. This is improvised music that keeps the flashy solos to a minimum, eschews the head-solo-head form and in the process achieves a depth of expression.

There are no hackneyed phrases here and the result is original and fresh with few clichés. Green and King are well spoken in their discordant dialects and disparate tongues.

Rings Of Fire – freejazz-stef.blogspot.com

Italian tenor saxophonist Daniele Cavallanti and drummer Tizian Tononi, created a new project, composing two suites “Faces & Phases”, to be played by some of the best Italian musicians, and with Jenny Scheinman on violin as the guest star. The “Faces”part, composed by Cavallanti, focuses on modern movie directors, including “Cassavetes”, “Bertolucci”, “Jarmush”, “Wenders” and “Eastwood”, the “Phases” part, composed by Tononi, are more inspired by nature. The Italian musicians include Giovanni Maier on bass, Massimo Moriani on electric guitar, Pacho on percussion, Emanuele Parrini on viola, and Achille Succi on bass clarinet and alto saxophone. The music brings a strange mix of modern jazz, fusion, rock, folk music, world music, avant-garde and free moments. The original idea was also to use the infinite possibilities of interaction between the two horns, the two strings and the guitar, together with the clear objective to create “lyrical tension, drama, power but at the same time always under control”. And I must say, that they managed to make this programmatic approach come true. Not only are the musicians excellent, but so is the music.

“Faces” is melodic, starting in an avant-garde fashion, moving on into “Cassavetes”, possibly the most jazzy piece of all, eery and agonizing. “Jarmush” is uptempo, a little more funky and fusion, whereas “Wenders” has a propulsive rock drive with heavily distorted guitar solo, yet “Eastwood” is the best piece, a great mid-tempo workout with excellent solos from Cavallanti and Scheinman.

“Phases”, also starts very avant-garde, with eery and screeching sounds like seagulls crying overhead, accompanied by singing whales, with the guitar and drums intervening with some some more industrial sounds. “Motionary Tales” has more drama, with strong unison theme, evolving into a lighter tune with a steady beat, over which the soloists do their thing, although all accompaniment slowly ebbs away before the viola give as a gripping solo. “Before The Storm”, the second long track, is much slower, with a great wild part in the middle, where all the solo instruments have a kind of battle for share of voice, only to rejoin a theme for a march-like tune. But I like “Landschape # 2” the best, with a combination of a folk tune with world music influences, a great bass clarinet solo over great percussive work by Pacho and a beautiful viloa solo by Parrini.

Variation enough, actually the tunes changes every few minutes, even the longest ones, yet despite that, the whole is pretty coherent. For some listeners there might be a little too much stylistic variation, though.Italian tenor saxophonist Daniele Cavallanti and drummer Tizian Tononi, created a new project, composing two suites “Faces & Phases”, to be played by some of the best Italian musicians, and with Jenny Scheinman on violin as the guest star. The “Faces”part, composed by Cavallanti, focuses on modern movie directors, including “Cassavetes”, “Bertolucci”, “Jarmush”, “Wenders” and “Eastwood”, the “Phases” part, composed by Tononi, are more inspired by nature. The Italian musicians include Giovanni Maier on bass, Massimo Moriani on electric guitar, Pacho on percussion, Emanuele Parrini on viola, and Achille Succi on bass clarinet and alto saxophone. The music brings a strange mix of modern jazz, fusion, rock, folk music, world music, avant-garde and free moments. The original idea was also to use the infinite possibilities of interaction between the two horns, the two strings and the guitar, together with the clear objective to create “lyrical tension, drama, power but at the same time always under control”. And I must say, that they managed to make this programmatic approach come true. Not only are the musicians excellent, but so is the music.

“Faces” is melodic, starting in an avant-garde fashion, moving on into “Cassavetes”, possibly the most jazzy piece of all, eery and agonizing. “Jarmush” is uptempo, a little more funky and fusion, whereas “Wenders” has a propulsive rock drive with heavily distorted guitar solo, yet “Eastwood” is the best piece, a great mid-tempo workout with excellent solos from Cavallanti and Scheinman.

“Phases”, also starts very avant-garde, with eery and screeching sounds like seagulls crying overhead, accompanied by singing whales, with the guitar and drums intervening with some some more industrial sounds. “Motionary Tales” has more drama, with strong unison theme, evolving into a lighter tune with a steady beat, over which the soloists do their thing, although all accompaniment slowly ebbs away before the viola give as a gripping solo. “Before The Storm”, the second long track, is much slower, with a great wild part in the middle, where all the solo instruments have a kind of battle for share of voice, only to rejoin a theme for a march-like tune. But I like “Landschape # 2” the best, with a combination of a folk tune with world music influences, a great bass clarinet solo over great percussive work by Pacho and a beautiful viloa solo by Parrini.

Variation enough, actually the tunes changes every few minutes, even the longest ones, yet despite that, the whole is pretty coherent. For some listeners there might be a little too much stylistic variation, though.

The Ill Tempered Piano – Jazzit

L’intrigante sottotitolo – ventiquattro improvvisazioni su pianoforti rotti e scordati trovati a New York – sintetizza perfettamente il contenuto. Nicola Cipani ha cercato per due anni pianoforti in cattive condizione nella zona di New York (città dove vive facendo il professore di italiano all’università) e con essi ha registrato questo “The lll-Tempered Piano”, ironico contraltare del clavicembalo bachiano, nel riverbero di magazzini e fabbriche abbandonate. Lo ascoltiamo dunque mentre passa da strumenti semplicemente malconci, in cui la scordatura crea effetti flanger o chorus, a veri e propri catorci sui quali è impossibile per l’esecutore ritrovare i consueti riferimenti. Il piano suona (più o meno) come un sitar, uno xilofono, un synth, e i frammenti di melodia appaiono come disegnati dietro un vetro opaco che ne sfuma i contorni. Pur incappando in qualche secca, dalla quale i suoni delcati da maneggiare e la carenza di appigli melodici non aiutano a uscire, Cipani è bravo a suonare i difetti dello strumento davanti al quale di volta in volta si siede, e a reagire agli stimoli imprevedibili che gli arrivano (ogni nota di un pianoforte scordato è un tuffo nel buio).L’intrigante sottotitolo – ventiquattro improvvisazioni su pianoforti rotti e scordati trovati a New York – sintetizza perfettamente il contenuto. Nicola Cipani ha cercato per due anni pianoforti in cattive condizione nella zona di New York (città dove vive facendo il professore di italiano all’università) e con essi ha registrato questo “The lll-Tempered Piano”, ironico contraltare del clavicembalo bachiano, nel riverbero di magazzini e fabbriche abbandonate. Lo ascoltiamo dunque mentre passa da strumenti semplicemente malconci, in cui la scordatura crea effetti flanger o chorus, a veri e propri catorci sui quali è impossibile per l’esecutore ritrovare i consueti riferimenti. Il piano suona (più o meno) come un sitar, uno xilofono, un synth, e i frammenti di melodia appaiono come disegnati dietro un vetro opaco che ne sfuma i contorni. Pur incappando in qualche secca, dalla quale i suoni delcati da maneggiare e la carenza di appigli melodici non aiutano a uscire, Cipani è bravo a suonare i difetti dello strumento davanti al quale di volta in volta si siede, e a reagire agli stimoli imprevedibili che gli arrivano (ogni nota di un pianoforte scordato è un tuffo nel buio).

The Ill-Tempered Piano – All About Jazz

Italian pianist now living in New York, Nicola Cipani gives us one of the most joyful instant recordings this year. His choice of music making was to utilize broken and almost unrecognizable untuned pianos he found in various warehouses. Okay, better heard than read from a piece of paper (or computer screen), these sometimes cranky, sometimes otherworldly boxes of strings remind you that the piano (and a few clavichords) are percussive instruments. Things rattle, children’s simple songs are plunked, parts ache, and buzz. Cipani’s concept seemingly never lags, nor repeats. The tunes are all bare bone compositions, averaging only 2 minutes in length, with the longest at five minutes and the shortest, just 32 seconds. “Macrominiature” is an off balanced set of chimes and vibrating chords, “True Story” has plucked strings, while “Scemofonia” sounds like very familiar bells rung via a vibraphone. Cipani’s imagination is unbounded. He sometimes plays simple songs, other times winds up a crazy player piano, as on “Outsourced Music.” If the strange and the beautiful is appealing to you, don’t miss this record. Tom Waits will be sampling these sounds.Italian pianist now living in New York, Nicola Cipani gives us one of the most joyful instant recordings this year. His choice of music making was to utilize broken and almost unrecognizable untuned pianos he found in various warehouses. Okay, better heard than read from a piece of paper (or computer screen), these sometimes cranky, sometimes otherworldly boxes of strings remind you that the piano (and a few clavichords) are percussive instruments. Things rattle, children’s simple songs are plunked, parts ache, and buzz. Cipani’s concept seemingly never lags, nor repeats. The tunes are all bare bone compositions, averaging only 2 minutes in length, with the longest at five minutes and the shortest, just 32 seconds. “Macrominiature” is an off balanced set of chimes and vibrating chords, “True Story” has plucked strings, while “Scemofonia” sounds like very familiar bells rung via a vibraphone. Cipani’s imagination is unbounded. He sometimes plays simple songs, other times winds up a crazy player piano, as on “Outsourced Music.” If the strange and the beautiful is appealing to you, don’t miss this record. Tom Waits will be sampling these sounds.

Your Very Eyes – ilcibicida.com

Mica ci stupiamo se un prodotto firmato Xabier Iriondo ed etichettato Wallace Records riesce a spiazzarci ogni volta. Anzi, se ci pensate è ancora più difficile: perché – chi conosce almeno un po’ delle ultime cose di Xabier (Polvere, Uncode Duello, A Short Apnea, Tasaday), ha visitato il suo negozio/laboratorio a Milano “SoundMetak” (dove vende strumenti rarissimi e improvvisa performance) ed è conscio del rooster sempre così sperimentale della banda di Mirko Spino – si approccia ad un loro prodotto con diverse difese immunitarie. Difese che però vengono puntualmente messe kappaò. Per questo nuovo lavoro dal titolo Your Very Eyes, Iriondo è in compagnia del sassofonista Gianni Mimmo (però non è nuova la loro collaborazione); insieme decidono di portare le loro esperienze musicali tra le mura della chiesa di S. Lucia delle Malve (X Secolo, tra i sassi di Matera) essenzialmente per due motivazioni, come spiegano nella presentazione al disco: “La prima è di ordine acustico. La pietra di quei luoghi è sonora e reagisce in modo molto interessante alle sollecitazioni timbriche. La seconda è quella vera. C’è necessità di una sorta di celebrazione di questo tentativo di creazione di un meta-linguaggio”. Il risultato naturalmente ha il sapore complesso dell’avanguardia. Un gusto fatto di contrasti, incontri/scontri e minimalismo. Rumori contro sax soprano, mahai metak (chitarra da tavolo a dieci corde) contro il silenzio della pietra, taisho koto (strumento a corda giapponese) contro qualche diavoleria lo-fi. Passato (la chiesa rupestre del X Secolo) contro presente, anzi futuro (la mescolanza di e tra “suoni nuovi”). Il tutto a creare quel “meta-linguaggio” di cui parlano i due autori. Un codice sonoro che mescola le due esperienze: classica e jazz quella di Gianni Mimmo. Avanguardia rock quella di Xabier Iriondo. Lunghe e sinuose session, di silenzi e suoni. Dunque “Your Very Eyes” è soprattutto un laboratorio sonoro. Un contenitore di suite che affascinano fino a stancare. Un progetto di musica senza steccati.Mica ci stupiamo se un prodotto firmato Xabier Iriondo ed etichettato Wallace Records riesce a spiazzarci ogni volta. Anzi, se ci pensate è ancora più difficile: perché – chi conosce almeno un po’ delle ultime cose di Xabier (Polvere, Uncode Duello, A Short Apnea, Tasaday), ha visitato il suo negozio/laboratorio a Milano “SoundMetak” (dove vende strumenti rarissimi e improvvisa performance) ed è conscio del rooster sempre così sperimentale della banda di Mirko Spino – si approccia ad un loro prodotto con diverse difese immunitarie. Difese che però vengono puntualmente messe kappaò. Per questo nuovo lavoro dal titolo Your Very Eyes, Iriondo è in compagnia del sassofonista Gianni Mimmo (però non è nuova la loro collaborazione); insieme decidono di portare le loro esperienze musicali tra le mura della chiesa di S. Lucia delle Malve (X Secolo, tra i sassi di Matera) essenzialmente per due motivazioni, come spiegano nella presentazione al disco: “La prima è di ordine acustico. La pietra di quei luoghi è sonora e reagisce in modo molto interessante alle sollecitazioni timbriche. La seconda è quella vera. C’è necessità di una sorta di celebrazione di questo tentativo di creazione di un meta-linguaggio”. Il risultato naturalmente ha il sapore complesso dell’avanguardia. Un gusto fatto di contrasti, incontri/scontri e minimalismo. Rumori contro sax soprano, mahai metak (chitarra da tavolo a dieci corde) contro il silenzio della pietra, taisho koto (strumento a corda giapponese) contro qualche diavoleria lo-fi. Passato (la chiesa rupestre del X Secolo) contro presente, anzi futuro (la mescolanza di e tra “suoni nuovi”). Il tutto a creare quel “meta-linguaggio” di cui parlano i due autori. Un codice sonoro che mescola le due esperienze: classica e jazz quella di Gianni Mimmo. Avanguardia rock quella di Xabier Iriondo. Lunghe e sinuose session, di silenzi e suoni. Dunque “Your Very Eyes” è soprattutto un laboratorio sonoro. Un contenitore di suite che affascinano fino a stancare. Un progetto di musica senza steccati.

Your Very Eyes – kathodik.it

Concepito al chiarore della prima alba, “Your Very Eyes” è un importante colloquio tra due sensibilità musicali, tanto estreme e mai come ora disposte a svelarsi reciprocamente le proprie emozioni più segrete. Un incontro-contrasto di estetiche sperimentali che ha vita in un giorno ben preciso, all’interno di un luogo primordiale, incavato nei primigeni anfratti-rocciosi di Matera: la chiesa di Santa Maria alle Malve, risalente al X° secolo, e la grezza-arcaica conformazione su cui è levata, le consente di avere le pareti ricche di cavità porose, di brusche aperture che, secondo le diverse posizioni predisposte per la registrazione, causeranno più di un effetto esterno sulla resa sonora finale.
Gianni Mimmo e Xabier Iriondo non erano nuovi a collaborare insieme, ma questa registrazione in pieno Solstizio d’Estate è la prima parentesi dove i due improvvisano senza altre presenze. Tanto per ricordare, sempre per Amirani era venuto alla luce il progetto audio-visivo “KURSK _ Truth In The End”, destinato a rievocare in chiave artistica la drammatica epopea del sottomarino russo, esploso ed inghiottito con il suo equipaggio dai mari del Nord; in quell’occasione, la coppia Mimmo-Iriondo (quest’ultimo era alle prese con i soli live-electronics) fu affiancata da Angelo Contini al trombone.
Il sax soprano, come sempre, impegna da solo tutto il tempo e la concentrazione di Mimmo; anche per questo lavoro, ho letto molti elogi nei confronti del sassofonista, tutti più o meno in sintonia nell’inquadrare le sue posizioni armoniche ‘incastonate’ nel ricordo di Steve Lacy. Sicuramente, anche il sottoscritto, tempo fa, rimarcò questa facile concordanza di temi e forme con il fine-soprano dell’americano, ma va sottolineato che proprio in “Your Very Eyes” i timbri di Mr Amirani vanno ben oltre, evolvendo in qualcosa di diverso e più acuto. Iriondo è seguito da un’amplificazione lo-fi e dalla presenza di due compagni sicuramente originali, il Mahai Metak (auto-invenzione elettrica, formata da legno, metallo ed elettroniche) e il Taisho Koto (oggetto appartenente alla famiglia delle corde nato nel Sol Levante), entrambi strumenti dalla corposità esotica, trascendente, atti a coprire le spalle dei secchi fiati con ampissimi ventagli armonici, in cui la policromia è nitida come una mattina di cielo primaverile, senza ombra di foschia.
I luoghi ‘impraticabili’ dell’improvvisata non adescano all’istante i protagonisti, visti gli inizi abbondanti di Psalm of Days: escursione minimalista che sfiora distrattamente nel proprio mezzo i canovacci della ballata dai gesti freak-a-delici. Ma, la parvenza velata di un meccanismo alla Taj Mahal Travellers, come per magia, cederà subito gli onori a raffinatezze-estemporanee: il canto solitario del soprano agganciato, superato e sovrastato completamente da una matassa non-invadente di corde metalliche ed elettroniche ferrose (Side Voice); la lotta interiore tra un fraseggio pulito, notturno e reiterato come una leggera ossessione, disarmonizzato da sospiri e soffi d’ansia (la title track); le interiora del soprano, le sue acute voragini abbrancate da tediose impronte micro-noise (Several Calls And A Perfect Pair Of Opinione); le gracili spatolate, gli improvvisi dissapori di Xavier che (per)seguono a distanza le infinite malinconie jazz di Mimmo (Nostos Algos). Un apparato scenico d’interazione elettro-acustica protratto a dovere, che diviene copione fisso (e riuscito) per le riflessioni impro en passant di Sub-Sequence, per gli indecifrabili bisbigli in Barn Swallow, per una posizione condivisa della dissonanza di Cirmustance And Sacrifice / Eye Tray…
Si è fatto giorno, il sole è ormai vivo e intenso, la spiritualità lancia gli ultimi influssi sul finire con Completion dove erge orgogliosa l’origine nipponica del Taisho Koto. Un altro capitolo seminale della free-music italiana, co-prodotto a piene forze da casa Amirani, Wallace, Phonometak Lab e LongSong Records.Concepito al chiarore della prima alba, “Your Very Eyes” è un importante colloquio tra due sensibilità musicali, tanto estreme e mai come ora disposte a svelarsi reciprocamente le proprie emozioni più segrete. Un incontro-contrasto di estetiche sperimentali che ha vita in un giorno ben preciso, all’interno di un luogo primordiale, incavato nei primigeni anfratti-rocciosi di Matera: la chiesa di Santa Maria alle Malve, risalente al X° secolo, e la grezza-arcaica conformazione su cui è levata, le consente di avere le pareti ricche di cavità porose, di brusche aperture che, secondo le diverse posizioni predisposte per la registrazione, causeranno più di un effetto esterno sulla resa sonora finale.
Gianni Mimmo e Xabier Iriondo non erano nuovi a collaborare insieme, ma questa registrazione in pieno Solstizio d’Estate è la prima parentesi dove i due improvvisano senza altre presenze. Tanto per ricordare, sempre per Amirani era venuto alla luce il progetto audio-visivo “KURSK _ Truth In The End”, destinato a rievocare in chiave artistica la drammatica epopea del sottomarino russo, esploso ed inghiottito con il suo equipaggio dai mari del Nord; in quell’occasione, la coppia Mimmo-Iriondo (quest’ultimo era alle prese con i soli live-electronics) fu affiancata da Angelo Contini al trombone.
Il sax soprano, come sempre, impegna da solo tutto il tempo e la concentrazione di Mimmo; anche per questo lavoro, ho letto molti elogi nei confronti del sassofonista, tutti più o meno in sintonia nell’inquadrare le sue posizioni armoniche ‘incastonate’ nel ricordo di Steve Lacy. Sicuramente, anche il sottoscritto, tempo fa, rimarcò questa facile concordanza di temi e forme con il fine-soprano dell’americano, ma va sottolineato che proprio in “Your Very Eyes” i timbri di Mr Amirani vanno ben oltre, evolvendo in qualcosa di diverso e più acuto. Iriondo è seguito da un’amplificazione lo-fi e dalla presenza di due compagni sicuramente originali, il Mahai Metak (auto-invenzione elettrica, formata da legno, metallo ed elettroniche) e il Taisho Koto (oggetto appartenente alla famiglia delle corde nato nel Sol Levante), entrambi strumenti dalla corposità esotica, trascendente, atti a coprire le spalle dei secchi fiati con ampissimi ventagli armonici, in cui la policromia è nitida come una mattina di cielo primaverile, senza ombra di foschia.
I luoghi ‘impraticabili’ dell’improvvisata non adescano all’istante i protagonisti, visti gli inizi abbondanti di Psalm of Days: escursione minimalista che sfiora distrattamente nel proprio mezzo i canovacci della ballata dai gesti freak-a-delici. Ma, la parvenza velata di un meccanismo alla Taj Mahal Travellers, come per magia, cederà subito gli onori a raffinatezze-estemporanee: il canto solitario del soprano agganciato, superato e sovrastato completamente da una matassa non-invadente di corde metalliche ed elettroniche ferrose (Side Voice); la lotta interiore tra un fraseggio pulito, notturno e reiterato come una leggera ossessione, disarmonizzato da sospiri e soffi d’ansia (la title track); le interiora del soprano, le sue acute voragini abbrancate da tediose impronte micro-noise (Several Calls And A Perfect Pair Of Opinione); le gracili spatolate, gli improvvisi dissapori di Xavier che (per)seguono a distanza le infinite malinconie jazz di Mimmo (Nostos Algos). Un apparato scenico d’interazione elettro-acustica protratto a dovere, che diviene copione fisso (e riuscito) per le riflessioni impro en passant di Sub-Sequence, per gli indecifrabili bisbigli in Barn Swallow, per una posizione condivisa della dissonanza di Cirmustance And Sacrifice / Eye Tray…
Si è fatto giorno, il sole è ormai vivo e intenso, la spiritualità lancia gli ultimi influssi sul finire con Completion dove erge orgogliosa l’origine nipponica del Taisho Koto. Un altro capitolo seminale della free-music italiana, co-prodotto a piene forze da casa Amirani, Wallace, Phonometak Lab e LongSong Records.