rockon.it – Dot to Dot

Se mi trovassi in un’intervista stile Iene, alla domanda “Descrivi in una parola il terzo disco delle Lilies on Mars”, risponderei senza indugio: profondamente femminile. E con questo non intendo escludere alcun tipo di ascoltatore target, ma mi riferisco piuttosto all’incredibile capacità di Dot To Dot di rispecchiare le infinite, complesse sfaccettature che rendono unica la donna per antonomasia.

A cominciare dall’euforia-tribe di See You Sun, maratona della batterista  Valentina Magaletti (The Oscillation, Buttonhead) interrotta da dolci soste di vocals dilatati e da un caracollante agitarsi di triangoli e strumenti a percussione, che sembra quasi salutare il sole londinese dopo aver fatto capolino, illudendoti per l’ennesima volta. Essenzialmente femminile nella fischiettabile spensieratezza della splendida No way, più fedele alla natura acustica del songwriting made in LOM, a tratti surfeggiante, perfetta per una pedalata tra i campi fuori dalla metropoli inglese. O nell’enigmatica sensualità di Entre temps, che crea un’alchimia melodica grazie ad ammalianti giri chitarristici e carillon, e nella maturità compositiva del primo singolo Oceanic Landscape, che accosta un wall of sound di remoti cori illusionistici e onde sonore distorte all’inconfondibile voce di Battiato. Femminile nella giocosa voglia di “sporcarsi” con diversi strumenti e di rinascere in ogni canzone come se fosse un nuovo giorno, come accade in Interval 1 e Interval 2, che distruggendo e ricomponendo creano efficaci ragnatele elettroniche tra un brano e l’altro, o nella duttilità dell’arrangiamento della closing trackMartians. E poi, come tralasciare l’aspetto più dark, percepibile in For the First 3 Years, dove tornano protagoniste le percussioni, l’umore plumbeo e l’acidità sonora, con la novità dei lyrics‘inafferrabili’ in italiano che ondeggiano come un pendolo tra l’orecchio sinistro e il destro. Eccezion fatta per la mediocre ballad So Far Dear America, Lisa e Marina riescono a dar vita a canzoni calde e pervasive, che abbracciano olisticamente la nostra parte più fragile e sognante arrivando persino a consolare, tratteggiando sempre con estrema delicatezza ricordi, réverie, demoni atavici. Questo avverto personalmente in Side ABCDE, uno dei brani più belli del disco con i suoi eco abissali e gli epidermici synth che avvolgono l’atmosfera e si fondono in un’imbrillantinata scia di shoegaze, oppure nella potente energia indie incamerata da Impossible Child.

Ultimo aspetto che a mio parere caratterizza Dot To Dot è la capacità di estraniare l’ascoltatore in modi diversi: più riflessivo e riverberante nella bellissima Sugar is Gone, che con il suo incipit chillout e i controrni sfumati è un forte veicolo di recondite passioni, un momento di distacco dopo una serata grandiosa o un indispensabile bisogno di crearsi mentalmente nuovi finali per qualcosa che ci è precluso; più quotidiano in Dream of Bees, la colonna sonora che ripercorre a scatti le nostre routine mattutine, dalle meccaniche azioni al risveglio fino allo slalom in mezzo alle folle all’ora di punta, davanti a porte che si aprono e si chiudono, dove è possibile e spesso così assolutamente necessario fluttuare e astrarsi per sopravvivere. Un episodio felice di un dreampop quasi tutto italiano… non male di questi tempi, no?.Se mi trovassi in un’intervista stile Iene, alla domanda “Descrivi in una parola il terzo disco delle Lilies on Mars”, risponderei senza indugio: profondamente femminile. E con questo non intendo escludere alcun tipo di ascoltatore target, ma mi riferisco piuttosto all’incredibile capacità di Dot To Dot di rispecchiare le infinite, complesse sfaccettature che rendono unica la donna per antonomasia.

A cominciare dall’euforia-tribe di See You Sun, maratona della batterista  Valentina Magaletti (The Oscillation, Buttonhead) interrotta da dolci soste di vocals dilatati e da un caracollante agitarsi di triangoli e strumenti a percussione, che sembra quasi salutare il sole londinese dopo aver fatto capolino, illudendoti per l’ennesima volta. Essenzialmente femminile nella fischiettabile spensieratezza della splendida No way, più fedele alla natura acustica del songwriting made in LOM, a tratti surfeggiante, perfetta per una pedalata tra i campi fuori dalla metropoli inglese. O nell’enigmatica sensualità di Entre temps, che crea un’alchimia melodica grazie ad ammalianti giri chitarristici e carillon, e nella maturità compositiva del primo singolo Oceanic Landscape, che accosta un wall of sound di remoti cori illusionistici e onde sonore distorte all’inconfondibile voce di Battiato. Femminile nella giocosa voglia di “sporcarsi” con diversi strumenti e di rinascere in ogni canzone come se fosse un nuovo giorno, come accade in Interval 1 e Interval 2, che distruggendo e ricomponendo creano efficaci ragnatele elettroniche tra un brano e l’altro, o nella duttilità dell’arrangiamento della closing trackMartians. E poi, come tralasciare l’aspetto più dark, percepibile in For the First 3 Years, dove tornano protagoniste le percussioni, l’umore plumbeo e l’acidità sonora, con la novità dei lyrics‘inafferrabili’ in italiano che ondeggiano come un pendolo tra l’orecchio sinistro e il destro. Eccezion fatta per la mediocre ballad So Far Dear America, Lisa e Marina riescono a dar vita a canzoni calde e pervasive, che abbracciano olisticamente la nostra parte più fragile e sognante arrivando persino a consolare, tratteggiando sempre con estrema delicatezza ricordi, réverie, demoni atavici. Questo avverto personalmente in Side ABCDE, uno dei brani più belli del disco con i suoi eco abissali e gli epidermici synth che avvolgono l’atmosfera e si fondono in un’imbrillantinata scia di shoegaze, oppure nella potente energia indie incamerata da Impossible Child.

Ultimo aspetto che a mio parere caratterizza Dot To Dot è la capacità di estraniare l’ascoltatore in modi diversi: più riflessivo e riverberante nella bellissima Sugar is Gone, che con il suo incipit chillout e i controrni sfumati è un forte veicolo di recondite passioni, un momento di distacco dopo una serata grandiosa o un indispensabile bisogno di crearsi mentalmente nuovi finali per qualcosa che ci è precluso; più quotidiano in Dream of Bees, la colonna sonora che ripercorre a scatti le nostre routine mattutine, dalle meccaniche azioni al risveglio fino allo slalom in mezzo alle folle all’ora di punta, davanti a porte che si aprono e si chiudono, dove è possibile e spesso così assolutamente necessario fluttuare e astrarsi per sopravvivere. Un episodio felice di un dreampop quasi tutto italiano… non male di questi tempi, no?.

spaziorock.it – Dot to Dot

A furia di giocare a fare le Hole immerse in un’atmosfera dreamy in terra d’Albione, ci si deve stancare. Ecco perché le Lilies On Mars – ritornate alla forma originaria del duo dopo la dipartita del newyorkese Matthew Parker – vengono colte, al termine del meriggio d’or di bagordi noise rock dello scorso “Wish You Were A Pony”, da un tramonto oscuro che suggerisce voglia di intimità elettronica.

Lo stacco tra il precedente lavoro ed il qui presente “Dot To Dot” è tutto lì, dalla voglia di riporre le bambole delle nostre Lisa Masia e Marina Cristofaro e dare maggior enfasi a momenti di sognanti marce dove, a dettare i tempi, non è la batteria, ma il sintetizzaore. Ed ecco che i nomi da citare, nel cercare di analizzare questa terza fatica in studio delle Nostre, sono quelli dei Lali Puna (“No Way”), di Grimes (“SIDE ABCDE” – rigorosamente in capital come la Boucher impone), della Björk dispersa nelle sue inquietanti foreste tribali (“For The First 3 Years”), delle derive elettroniche shoegaze più contemplative degli Slowdive (“Dream Of Bees”) e della malinconia di una Julee Cruise davanti ad un sole destinato nell’imminente a scomparire (“Entre-Temps”). Poi, impossibile non citare il featuring di peso sul singolo “Oceanic Landscapes”, dove Franco Battiato arriva a restituire sì il favore della collaborazione con un ritardo di parecchi anni, ma donando altresì al pezzo quell’algido misticismo di cui lui sa essere così esclusivo portatore.
Peccato unicamente per una parte forse eccessivamente dispersiva sul finale, un piccolo screzio che, tuttavia, non intacca (troppo) la sensazione di netto miglioramento che le Lilies On Mars restituiscono dall’ascolto di queste sognanti e leggere note. Forse il fatto che qui ci sia molto meno casino che in passato  potrebbe far storcere le orecchie di qualcuno, noi preferiamo, invece, sottolineare la maggiore classe necessaria per confezionare una musica che si possa adattare a colorare a dovere un soffice quanto oscuro sogno. Brave ragazze, i gigli su marte sono più che mai in fiore.

A furia di giocare a fare le Hole immerse in un’atmosfera dreamy in terra d’Albione, ci si deve stancare. Ecco perché le Lilies On Mars – ritornate alla forma originaria del duo dopo la dipartita del newyorkese Matthew Parker – vengono colte, al termine del meriggio d’or di bagordi noise rock dello scorso “Wish You Were A Pony”, da un tramonto oscuro che suggerisce voglia di intimità elettronica.

Lo stacco tra il precedente lavoro ed il qui presente “Dot To Dot” è tutto lì, dalla voglia di riporre le bambole delle nostre Lisa Masia e Marina Cristofaro e dare maggior enfasi a momenti di sognanti marce dove, a dettare i tempi, non è la batteria, ma il sintetizzaore. Ed ecco che i nomi da citare, nel cercare di analizzare questa terza fatica in studio delle Nostre, sono quelli dei Lali Puna (“No Way”), di Grimes (“SIDE ABCDE” – rigorosamente in capital come la Boucher impone), della Björk dispersa nelle sue inquietanti foreste tribali (“For The First 3 Years”), delle derive elettroniche shoegaze più contemplative degli Slowdive (“Dream Of Bees”) e della malinconia di una Julee Cruise davanti ad un sole destinato nell’imminente a scomparire (“Entre-Temps”). Poi, impossibile non citare il featuring di peso sul singolo “Oceanic Landscapes”, dove Franco Battiato arriva a restituire sì il favore della collaborazione con un ritardo di parecchi anni, ma donando altresì al pezzo quell’algido misticismo di cui lui sa essere così esclusivo portatore.
Peccato unicamente per una parte forse eccessivamente dispersiva sul finale, un piccolo screzio che, tuttavia, non intacca (troppo) la sensazione di netto miglioramento che le Lilies On Mars restituiscono dall’ascolto di queste sognanti e leggere note. Forse il fatto che qui ci sia molto meno casino che in passato  potrebbe far storcere le orecchie di qualcuno, noi preferiamo, invece, sottolineare la maggiore classe necessaria per confezionare una musica che si possa adattare a colorare a dovere un soffice quanto oscuro sogno. Brave ragazze, i gigli su marte sono più che mai in fiore.

www.myword.it – Dot To Dot

“Matter, Its waves and radiation create sounds that enthrall. Inspired by this, we play music looking up”. Così si descrivono i Lilies On Mars, duo italiano (anche se non si direbbe) tutto al femminile, formato da Lisa Masia eMarina Cristofalo. Manipolatrici della materia, delle onde sonore e delle sue radiazioni, il tutto concentrato in una prospettiva spaziale, un’introduzione affascinante quanto inquietante, per questo ho voluto come punto di inizio di questa mia recensione la suddetta descrizione, onestamente non sarei riuscito a trovare parole migliori per raccontarvi DOT DO DOT, e cioè l’ultima fatica della band.

See You Sun, primo pezzo dell’album, è subito un colpo basso, echi e suoni elettronici si fondono intimamente con una particolarissima chitarra ritmica, ci si lascia subito portare via nel mondo dei “Gigli su Marte”, iniziare con un pezzo così bello è decisamente un colpo basso, si è per forza di cose obbligati a continuare il proprio viaggio. Arrivano prima Dream Of Bees, il quale è un concentrato raffinato di dream-pop, e poi la più esotica SIDE ABCDE, pezzo questo che si destreggia mirabilmente tra una tastierina che porta alla mente l’India e tra la nube di suono inglobante che nasce al minuto 1:40, il risultato è un altro brano fantastico. No Way e Entre-Temps scorrono piacevoli e conducono al pezzo di maggior risonanza (ma non più bello) dell’album: “Oceanic Landscape”, traccia in cui ad addobbare lo splendido modo di fare musica delle Lilies arriva l’ospite illustre Franco Battiato, il pezzo ne guadagna in colori e in qualità, pur mantenendosi sempre sulla linea guida di un pop sognante e psichedelico. A Impossibile Child, mi viene in mente la prima critica da muovere al disco: ok, i brani funzionano, le atmosfere sono quelle giuste, ma dopo 7 brani mi ci perdo quasi in queste atmosfere, sono troppo simili, il singolo pezzo in questo contesto rischia di perdere l’imprinting necessario. Neanche il tempo di mettere il moto il mio spirito da critico musicale di serie b, che parte So Far Dear America, i suoni si fanno più rarefatti e acidi, lo special finale è un trip onirico, non si perde però la linea musicale di fondo, ma cambiano i connotati della stessa, e inizia come una seconda parte dell’album, la quale racchiude l’aspetto più cupo del duo. Sugar Is Gone, sembra quasi un pezzo degli Aucan per come inizia (non li vedrei male in una collaborazione), e conferma la svolta verso ricordi e sonorità meno gioiose rispetto a quelle da cartolina sbiadita ascoltate fino ad ora. Penultima nell’ordine, ma prima nelle mie preferenze è For First 3 Year, compare qui un cantato in italiano quasi impercettibile e rarefatto, caratteristiche queste, che danno, insieme alla base musicale che si muove su suoni quasi irritanti, un mix estasiante di sensualità ed intrigo. I Crystal Castels tornano alla mente nell’atto conclusivo dato da Martians, se alla voce non c’è Alice Glass, sembra comunque di vederla, anche perché la qualità del pezzo e forse anche maggiore di quelli della band canadese.

Che dire, penso che il numero di volte in cui ho usato le parole: fantastico, estasiante, bello, sogno, atmosfere ecc., parlino da se. I Lilies On Mars hanno fatto un ottimo lavoro, hanno confezionato un viaggio mistico in un cd,  ci permettono di lasciarci trasportare via senza dover abbandonare la nostra cameretta, hanno dato vita ad un vero è proprio stupefacente legale(ma non per questo meno intrigante), poco costoso ed ottenibile da tutti. Ovviamente non si può vivere solo di sogni, ma si necessita anche di qualità musicale, e l’album ne è piena zeppa, questi brani non cavalcano spiccatamente nessuna onda “chill-qualcosa” d’oltralpe, ma segnano il percorso per una sperimentazione e una ricerca sonora molto interessante. Unica obiezione: fate più pezzi in italiano, brani come For First 3 Year chiedono maggior attenzione.“Matter, Its waves and radiation create sounds that enthrall. Inspired by this, we play music looking up”. Così si descrivono i Lilies On Mars, duo italiano (anche se non si direbbe) tutto al femminile, formato da Lisa Masia eMarina Cristofalo. Manipolatrici della materia, delle onde sonore e delle sue radiazioni, il tutto concentrato in una prospettiva spaziale, un’introduzione affascinante quanto inquietante, per questo ho voluto come punto di inizio di questa mia recensione la suddetta descrizione, onestamente non sarei riuscito a trovare parole migliori per raccontarvi DOT DO DOT, e cioè l’ultima fatica della band.

See You Sun, primo pezzo dell’album, è subito un colpo basso, echi e suoni elettronici si fondono intimamente con una particolarissima chitarra ritmica, ci si lascia subito portare via nel mondo dei “Gigli su Marte”, iniziare con un pezzo così bello è decisamente un colpo basso, si è per forza di cose obbligati a continuare il proprio viaggio. Arrivano prima Dream Of Bees, il quale è un concentrato raffinato di dream-pop, e poi la più esotica SIDE ABCDE, pezzo questo che si destreggia mirabilmente tra una tastierina che porta alla mente l’India e tra la nube di suono inglobante che nasce al minuto 1:40, il risultato è un altro brano fantastico. No Way e Entre-Temps scorrono piacevoli e conducono al pezzo di maggior risonanza (ma non più bello) dell’album: “Oceanic Landscape”, traccia in cui ad addobbare lo splendido modo di fare musica delle Lilies arriva l’ospite illustre Franco Battiato, il pezzo ne guadagna in colori e in qualità, pur mantenendosi sempre sulla linea guida di un pop sognante e psichedelico. A Impossibile Child, mi viene in mente la prima critica da muovere al disco: ok, i brani funzionano, le atmosfere sono quelle giuste, ma dopo 7 brani mi ci perdo quasi in queste atmosfere, sono troppo simili, il singolo pezzo in questo contesto rischia di perdere l’imprinting necessario. Neanche il tempo di mettere il moto il mio spirito da critico musicale di serie b, che parte So Far Dear America, i suoni si fanno più rarefatti e acidi, lo special finale è un trip onirico, non si perde però la linea musicale di fondo, ma cambiano i connotati della stessa, e inizia come una seconda parte dell’album, la quale racchiude l’aspetto più cupo del duo. Sugar Is Gone, sembra quasi un pezzo degli Aucan per come inizia (non li vedrei male in una collaborazione), e conferma la svolta verso ricordi e sonorità meno gioiose rispetto a quelle da cartolina sbiadita ascoltate fino ad ora. Penultima nell’ordine, ma prima nelle mie preferenze è For First 3 Year, compare qui un cantato in italiano quasi impercettibile e rarefatto, caratteristiche queste, che danno, insieme alla base musicale che si muove su suoni quasi irritanti, un mix estasiante di sensualità ed intrigo. I Crystal Castels tornano alla mente nell’atto conclusivo dato da Martians, se alla voce non c’è Alice Glass, sembra comunque di vederla, anche perché la qualità del pezzo e forse anche maggiore di quelli della band canadese.

Che dire, penso che il numero di volte in cui ho usato le parole: fantastico, estasiante, bello, sogno, atmosfere ecc., parlino da se. I Lilies On Mars hanno fatto un ottimo lavoro, hanno confezionato un viaggio mistico in un cd,  ci permettono di lasciarci trasportare via senza dover abbandonare la nostra cameretta, hanno dato vita ad un vero è proprio stupefacente legale(ma non per questo meno intrigante), poco costoso ed ottenibile da tutti. Ovviamente non si può vivere solo di sogni, ma si necessita anche di qualità musicale, e l’album ne è piena zeppa, questi brani non cavalcano spiccatamente nessuna onda “chill-qualcosa” d’oltralpe, ma segnano il percorso per una sperimentazione e una ricerca sonora molto interessante. Unica obiezione: fate più pezzi in italiano, brani come For First 3 Year chiedono maggior attenzione.

Just Kids Webzine – Two For Joyce

La carriera di Keith Tippett ha dell’incredibile. Per la qualità costantemente alta della produzione artistica, innanzitutto; per la varietà degli interessi e degli ambiti musicali esplorati, dall’artrock al jazz alla musica d’avanguardia. Come divulgatore, leader, creatore di progetti eccellenti, insegnante carismatico e di spessore. Molto meno dal punto di vista della visibilità e del successo di vendite, diversamente da altri, quasi omonimi, pianisti. Da cinque decenni il grande pianista inglese ha esplorato molte vie che portano all’essenza musicale: la ricerca assoluta dell’esibizione in solo, l’improvvisazione di gruppo, il lavoro di compositore e arrangiatore per piccoli e grandi ensemble. A renderlo maggiormente noto al pubblico ha fortemente contribuito la sua partecipazione come sideman di lusso a dischi storici dei King Crimson, come “In the Wake of Poseidon”, “Lizard” e “Islands”, e l’aver suonato in molti frangenti con musicisti membri di un gruppo di culto come i Soft Machine. Ugualmente importanti per la sua statura artistica, sono stati i progetti Centipede Orchestra, Ark, e Mujician, che gli hanno fatto guadagnare la stima e l’apprezzamento soprattutto da parte dei colleghi e degli addetti ai lavori.

Il suo stile è personale ed eclettico, e si avvantaggia di una forte padronanza ritmica e di un linguaggio armonico ricchissimo e obliquo. Il pianismo di Tippett infatti è fortemente debitore nei confronti di autori di importanza cardinale come Debussy e Messiaen, dai quali assorbe la lezione di far respirare la musica come un organismo vivente, donandole quegli “accidenti”, quelle irregolarità che la rendono unica, e quegli accordi che dipingono in sfumature sempre diverse di colori i vari stati d’animo. Tutte queste qualità sono pienamente in evidenza in questo interessantissimo disco in duo, registrato dal vivo a Trieste nel maggio 2012 nell’ambito della rassegna “Le Nuove Rotte del Jazz”.

Il disco vede come co-protagonista il nostro Giovanni Maier, contrabbassista tra i più dotati e creativi, e musicista a tutto tondo. Anche Maier da più di vent’anni è votato a una vera e propria missione musicale, che oltre all’insegnamento e a vari progetti pregevoli come la Mosaic Orchestra, include dal ‘94 un “work in progress” sulle possibilità del contrabbasso solo (documentato in vari album), ed anche il lavoro per il teatro, il cinema e la danza. Tippett e Maier sono partner ideali e le loro visioni si sposano alla perfezione in questi 50 minuti di musica improvvisata, che compongono l’unica traccia del disco. Il titolo: “Two for Joyce – Live in Trieste”, suggerisce un chiaro riferimento allo “stream of counsciousness” di joyciana memoria, e al capolavoro ”Ulysses”, con tutti i rimandi del caso all’idea di viaggio ed esplorazione. E proprio di una piccola Odissea si tratta.

Fin dall’inizio infatti i due musicisti instaurano un dialogo ed un ascolto reciproco che conducono a poco a poco l’ascoltatore ricettivo in territori conosciuti e sconosciuti, ma sempre affascinanti. Sono molti i ricordi e le citazioni evocate nel corso del concerto: i glissati di Charles Mingus e del suo basso parlante in duo con Max Roach; quelle sonorità metalliche figlie a un tempo del Clavicembalo ben Temperato di Bach e delle Sonatas and Interludes per piano preparato di John Cage; quei tetri carillion da fiera fin de siecle; i ritmi e i timbri del Gamelan; persino l’ironico, caustico richiamo all’arrangiamento più famoso di “Tea For Two”. Accanto al prevalente impeto ritmico, mai parossistico e sempre avvincente, non mancano lunghi momenti di seducente atmosfera, di affascinante mistero, nei quali gli strumenti propongono sonorità risonanti e impressionistiche, sensuali.

Il bellissimo timbro del contrabbasso di Maier, profondo e corposo, sa rarefarsi e sussurrare, per poi tornare denso e percussivo. E Tippett, da grande maestro, ha un controllo assoluto sulle dinamiche dei tasti e della pedaliera, erogando il volume e le masse sonore con gran senso di equilibrio.
Come spesso accade nelle esibizioni in duo, specialmente se improvvisate, entrambi gli strumenti coinvolti, oltre a liberare la forma e concentrarsi sull’interplay, allargano il range delle proprie possibilità, uscendo dal proprio ruolo convenzionale e tirando fuori sonorità che sono appannaggio dell’intera sezione ritmica. Il piano di solito è il più avvantaggiato in questo processo: può facilmente diventare percussivo (essendo, di fatto, uno strumento a percussione di corde) e la mano sinistra può facilmente disegnare delle linee di basso. Inoltre il pianista può giocare a suo piacimento col timbro e la tonalità (o atonalità), anche inserendo oggetti all’interno del piano stesso, come fa spesso Tippett. Anche il basso può agevolmente diventare percussivo ed è potenzialmente uno strumento armonico, e Maier sfrutta appieno la gamma di queste possibilità esecutive.

Alla fine del “viaggio”, quel che resta è un’appagante sensazione di pienezza nelle orecchie e di piacere intellettuale. I due partner si producono in una performance da incorniciare, riuscendo a tenere alta la tensione per tutta la durata del concerto e a dialogare con fantasia e intelligenza. E’ un altro capitolo pregevole dell’ormai lunga e gloriosa storia dell’improvvisazione free jazz europea, e vale sicuramente la pena acquistare ed ascoltare più volte questo disco, per coglierne anche gli aspetti nascosti. Non è un disco per tutti però: pur non essendo caratterizzato da quella cacofonia tipica di alcune produzioni free, ed essendo anzi molto melodico in alcuni episodi, resta decisamente al di fuori del main stream, e richiede un impegno di ascolto attivo per essere metabolizzato ed apprezzato pienamente.

Unico appunto al titolo della rassegna, “Le Nuove Rotte del Jazz”; qui di nuovo c’è ben poco. Sono decenni, almeno dagli anni ‘60 che esiste questo tipo di improvvisazione, ed il linguaggio, pur avendo arricchito col tempo il proprio vocabolario, è rimasto lo stesso. Ma, naturalmente, la “novità” non è una condizione necessaria per fare dell’ottima musica.La carriera di Keith Tippett ha dell’incredibile. Per la qualità costantemente alta della produzione artistica, innanzitutto; per la varietà degli interessi e degli ambiti musicali esplorati, dall’artrock al jazz alla musica d’avanguardia. Come divulgatore, leader, creatore di progetti eccellenti, insegnante carismatico e di spessore. Molto meno dal punto di vista della visibilità e del successo di vendite, diversamente da altri, quasi omonimi, pianisti. Da cinque decenni il grande pianista inglese ha esplorato molte vie che portano all’essenza musicale: la ricerca assoluta dell’esibizione in solo, l’improvvisazione di gruppo, il lavoro di compositore e arrangiatore per piccoli e grandi ensemble. A renderlo maggiormente noto al pubblico ha fortemente contribuito la sua partecipazione come sideman di lusso a dischi storici dei King Crimson, come “In the Wake of Poseidon”, “Lizard” e “Islands”, e l’aver suonato in molti frangenti con musicisti membri di un gruppo di culto come i Soft Machine. Ugualmente importanti per la sua statura artistica, sono stati i progetti Centipede Orchestra, Ark, e Mujician, che gli hanno fatto guadagnare la stima e l’apprezzamento soprattutto da parte dei colleghi e degli addetti ai lavori.

Il suo stile è personale ed eclettico, e si avvantaggia di una forte padronanza ritmica e di un linguaggio armonico ricchissimo e obliquo. Il pianismo di Tippett infatti è fortemente debitore nei confronti di autori di importanza cardinale come Debussy e Messiaen, dai quali assorbe la lezione di far respirare la musica come un organismo vivente, donandole quegli “accidenti”, quelle irregolarità che la rendono unica, e quegli accordi che dipingono in sfumature sempre diverse di colori i vari stati d’animo. Tutte queste qualità sono pienamente in evidenza in questo interessantissimo disco in duo, registrato dal vivo a Trieste nel maggio 2012 nell’ambito della rassegna “Le Nuove Rotte del Jazz”.

Il disco vede come co-protagonista il nostro Giovanni Maier, contrabbassista tra i più dotati e creativi, e musicista a tutto tondo. Anche Maier da più di vent’anni è votato a una vera e propria missione musicale, che oltre all’insegnamento e a vari progetti pregevoli come la Mosaic Orchestra, include dal ‘94 un “work in progress” sulle possibilità del contrabbasso solo (documentato in vari album), ed anche il lavoro per il teatro, il cinema e la danza. Tippett e Maier sono partner ideali e le loro visioni si sposano alla perfezione in questi 50 minuti di musica improvvisata, che compongono l’unica traccia del disco. Il titolo: “Two for Joyce – Live in Trieste”, suggerisce un chiaro riferimento allo “stream of counsciousness” di joyciana memoria, e al capolavoro ”Ulysses”, con tutti i rimandi del caso all’idea di viaggio ed esplorazione. E proprio di una piccola Odissea si tratta.

Fin dall’inizio infatti i due musicisti instaurano un dialogo ed un ascolto reciproco che conducono a poco a poco l’ascoltatore ricettivo in territori conosciuti e sconosciuti, ma sempre affascinanti. Sono molti i ricordi e le citazioni evocate nel corso del concerto: i glissati di Charles Mingus e del suo basso parlante in duo con Max Roach; quelle sonorità metalliche figlie a un tempo del Clavicembalo ben Temperato di Bach e delle Sonatas and Interludes per piano preparato di John Cage; quei tetri carillion da fiera fin de siecle; i ritmi e i timbri del Gamelan; persino l’ironico, caustico richiamo all’arrangiamento più famoso di “Tea For Two”. Accanto al prevalente impeto ritmico, mai parossistico e sempre avvincente, non mancano lunghi momenti di seducente atmosfera, di affascinante mistero, nei quali gli strumenti propongono sonorità risonanti e impressionistiche, sensuali.

Il bellissimo timbro del contrabbasso di Maier, profondo e corposo, sa rarefarsi e sussurrare, per poi tornare denso e percussivo. E Tippett, da grande maestro, ha un controllo assoluto sulle dinamiche dei tasti e della pedaliera, erogando il volume e le masse sonore con gran senso di equilibrio.
Come spesso accade nelle esibizioni in duo, specialmente se improvvisate, entrambi gli strumenti coinvolti, oltre a liberare la forma e concentrarsi sull’interplay, allargano il range delle proprie possibilità, uscendo dal proprio ruolo convenzionale e tirando fuori sonorità che sono appannaggio dell’intera sezione ritmica. Il piano di solito è il più avvantaggiato in questo processo: può facilmente diventare percussivo (essendo, di fatto, uno strumento a percussione di corde) e la mano sinistra può facilmente disegnare delle linee di basso. Inoltre il pianista può giocare a suo piacimento col timbro e la tonalità (o atonalità), anche inserendo oggetti all’interno del piano stesso, come fa spesso Tippett. Anche il basso può agevolmente diventare percussivo ed è potenzialmente uno strumento armonico, e Maier sfrutta appieno la gamma di queste possibilità esecutive.

Alla fine del “viaggio”, quel che resta è un’appagante sensazione di pienezza nelle orecchie e di piacere intellettuale. I due partner si producono in una performance da incorniciare, riuscendo a tenere alta la tensione per tutta la durata del concerto e a dialogare con fantasia e intelligenza. E’ un altro capitolo pregevole dell’ormai lunga e gloriosa storia dell’improvvisazione free jazz europea, e vale sicuramente la pena acquistare ed ascoltare più volte questo disco, per coglierne anche gli aspetti nascosti. Non è un disco per tutti però: pur non essendo caratterizzato da quella cacofonia tipica di alcune produzioni free, ed essendo anzi molto melodico in alcuni episodi, resta decisamente al di fuori del main stream, e richiede un impegno di ascolto attivo per essere metabolizzato ed apprezzato pienamente.

Unico appunto al titolo della rassegna, “Le Nuove Rotte del Jazz”; qui di nuovo c’è ben poco. Sono decenni, almeno dagli anni ‘60 che esiste questo tipo di improvvisazione, ed il linguaggio, pur avendo arricchito col tempo il proprio vocabolario, è rimasto lo stesso. Ma, naturalmente, la “novità” non è una condizione necessaria per fare dell’ottima musica.

Just Kids Webzine – Irrintzi

Xabier Iriondo, chitarrista autodidatta, sperimentatore, ricercatore, manipolatore di suoni con numerosi progetti all’attivo. Nel 2010 rientra in quella che Manuel Agnelli non esita a definire la migliore formazione degli Afterhours di sempre.

A fine settembre 2012 pubblica, per Wallace Records, il suo primo vero disco solista: “Irrintzi”. Lo abbiamo incontrato al Carroponte di Sesto San Giovanni prima di un esplosivo concerto con gli Afterhours, dove, con grande disponibilità, ci ha raccontato un po’ di lui.

Irrintzi vuole essere un omaggio alle tue radici. Quanto ha inciso e ti ha influenzato la musica tradizionale basca nella tua carriera musicale?
nella mia carriera musicale non saprei definirlo con esattezza, sicuramente nella mia persona perché ci sono cresciuto sin da quando ero bambino. Io sono di origine basca, mio padre era basco e, pur essendo nato a Milano, ho sempre passato quattro mesi all’anno circa là e continuo ad andarci tutti gli anni, avendo famiglia e amici. La passione legata alla musica tradizionale basca è qualcosa che mi accompagna come accompagna un pochino tutti i baschi. La tradizione folk è molto sentita, molto forte e i giovani suonano gli strumenti caratteristici in maniera classica. Alcuni li suonano anche in maniera un pochino bizzarra ed io ho sempre avuto queste sonorità intorno a me. Il suono del txistu che è una specie di flauto clarinetto, tumtum, tamborra, la stessa txalaparta che è uno strumento molto primitivo, quasi ancestrale, che si suona ancora adesso con dei bastoni sopra delle assi di legno, alle feste patronali e non solo. Diciamo che ho sempre coltivato un background di certe sonorità, di certe melodie un pochino atipiche del panorama folk italiano. Non so poi quanto abbiano inciso realmente sul mio percorso. Soltanto in una forma più matura, negli ultimi 67 anni, ho iniziato a ragionarci non solo a livello emotivo, ma anche in modo più organizzato, sia artisticamente che musicalmente. Ho sentito la necessità di capire se potevo trovare dei connubi per inserire i suoni della tradizione basca nelle texture più sature di alcune mie sonorità.

La sperimentazione e ricerca sonora e’ sempre stata una tua caratteristica fin dai tempi in cui entrasti a far parte degli Afterhours. da dove nasce questa tua passione?

Dall’infanzia. Sono stato un bambino e poi un ragazzo che amava provare, curiosare, osservare un sacco di cose che lo circondavano, per trovare poi un modo personale di utilizzarle ed applicarle. L’input che mi ha portato a suonare la chitarra elettrica a 17 anni è stato sicuramente l’impulso adolescenziale di voler stare su un palco, ma anche e soprattutto di giocare con questi suoni, con questi timbri. La chitarra elettrica è uno strumento che ha di per sé già più suoni di base perché ha più magneti che catturano il suono posizionati sul corpo dello strumento e attraverso tutte queste scatolettine colorate dalle quali fuoriuscivano sonorità che erano lontane dal bagaglio della chitarra a corde tradizionale. Questa cosa mi ha sempre accompagnato insieme alla voglia di giocare e sperimentare.

Oltre ad essere un eclettico musicista e chitarrista sei anche un “costruttore” di strumenti particolari. ci parleresti di questi strumenti “preparati”?

Ad un certo punto del mio percorso, circa 12/13 anni fa, ho iniziato a sentire l’esigenza di utilizzare delle sonorità in maniera diversa. Non soltanto lavorare sul suono ma anche sulle tecniche che gli potevo applicare. Ho pensato che suonare la chitarra in modo non tradizionale poteva portarmi a delle nuove sonorità. Ricordo esperimenti legati al fatto di prendere la chitarra, sdraiarla ed usarla orizzontalmente, piuttosto che di cambiare le corde. Tutta una serie di esperimenti che si fanno agli inizi. Da lì è nato poi l’interesse di provare a lavorare in maniera intuitiva per

 

costruire uno strumento ad hoc e l’ho fatto in occasione di un tour con Damo Suzuki. Un pomeriggio sono andato al brico center, ho comprato dei pezzi e mi sono costruito questo strumento molto primitivo con cui ci ho fatto un tour all’estero. Era una specie di prototipo che mi ha accompagnato per diversi anni e che conservo tuttora. Certo, un pochino improbabile e soprattutto poco utilizzabile, nel senso che non riuscivo a mantenerlo sempre ben accordato. Quando poi ho aperto il mio negozio di strumenti musicali ho sentito di nuovo forte l’esigenza di approfondire lo studio di uno strumento ad hoc, con cui potessi

creare veramente tutte le sonorità che avevo in testa e che non riuscivo a tirare fuori da una chitarra elettrica tradizionale, con i pedali e l’amplificatore. Ho ideato uno strumento a 10 corde con un diapason molto più corto rispetto a una chitarra, una lap steel, implementando dell’elettronica al suo interno, quindi degli oscillatori, dei fad, facendomi costruire dei magneti apposta a mano (perché non esistono magneti a 10 poli) ed ideando praticamente uno strumento partendo da un disegno. Io non ho l’abilità di usare le mani e allora ragionandoci con un liutaio ho detto: “facciamo un disegno, lavoriamolo con una macchina che lo possa scavare, una macchina a controllo numerico e poi facciamo in modo che possa essere smussato e lavorato a mano”. L’ho fatto non soltanto per me ma anche per una serie di clienti che me l’hanno comprato negli anni di apertura del negozio. La necessità è venuta dal fatto di continuare a sperimentare e trovare dei nuovi modi di interpretare le so

norità che avevo in testa. Questo strumento riesce ad avere una gamma sonora timbrica che va da suoni molto più profondi del basso elettrico a suoni acutissimi quasi sintetici. Ho smesso per due anni e mezzo di suonare la chitarra quando ho ideato questo strumento perché non volevo applicare le tecniche della chitarra sullo stesso. Quindi ho detto: “ reinventiamoci e mettiamoci a giocare…” . Con gli afterhours lo uso pochissimo, solo in due brani dal vivo per poche cose, invece nella mia attività solista è lo strumento principale.

Sound Metak, tra il 2005 e il 2010 è stato un negozio laboratorio di strumenti musicali, ma anche un luogo di incontro di artisti e di idee con performance dal vivo. Com’è nata l’idea e perché ne hai interrotto l’attività?In realtà la chiusura era prevista fin dall’inizio, si trattava un piano quinquennale. Io ragiono così nella mia vita. Ragiono a blocchi a idee a progetti e non immagino di andare avanti una vita a fare la stessa cosa, non mi interessa. Era dalla fine del 2003 che lo volevo aprire ci ho messo oltre un anno a trovare il luogo, a organizzare quel réseau di clienti e di fornitori soprattutto. Questi li ho conosciuti tutti di persona, volevo avere un rapporto diretto con loro, anche se venivano da molto lontano (dagli Stati Uniti al Nord Europa, Germania in particolare). Si andava dagli strumenti legati alla musica folk: monocorde,

kalimbe, ecc. fino ad arrivare agli strumenti elettronici autocostruiti: pedali per chitarra, sintetizzatori e via dicendo… Avevo in progetto di creare una piccola isola a Milano che offrisse uno spazio fuori dai generis. Una specie di scheggia impazzita nella quale potessero accedere artisti che proponevano suggestioni molto diverse: dal cantautorato all’hard core, alla musica elettronica, alla danza butoh, alle proiezioni video alle istallazioni. Il tutto rigorosamente gratuito, sia da parte dei fruitori che di coloro che venivano ad esibirsi. 125 performance in 5 anni, musicisti italiani e stranieri venuti senza alcun compenso, dopo che ho spiegato loro il mio tipo di progetto. Si è trattato di una “piccola bombetta da fare esplodere” per far capire quanto in realtà ogni spazio aperto al pubblico può rappresentare uno stimolo culturale. Penso ad esempio ad una pasticceria dove ci potrebbe essere un reading di violoncello e voce, è una cosa che all’estero spesso accade. Da noi invece è abbastanza difficile concepirla, ma ho visto che la mia iniziativa ha avuto un successo impressionante. Il negozio era pieno, ha davvero suscitato curiosità. Ho visto entrare e godere delle performance anche soggetti mai immaginati prima e di età che non mi sarei aspettato. Io vivo così, mi è piaciuto scardinare qualche cosa, se qualcuno ha recepito ben venga, se questo non è accaduto mi spiace.

Manuel Agnelli ha dichiarato che quella attuale e’ la migliore formazione che gli Afterhours hanno mai avuto. e averti a fianco a lui sul palco gli da una carica particolare. Come hai vissuto questo ritorno?

L’ho vissuto in maniera molto molto positiva. Sono d’accordo con Manuel, tutti noi pensiamo che questa formazione sia la migliore. C’è una carica speciale, un amalgama emotiva e di amicizia abbastanza unica. Credo che il disco nuovo che abbiamo composto contenga dei germi di energia particolare che hanno fatto sì che questa formazione abbia una resa speciale. Per me è stato davvero bello, interessante e molto semplice ritornare. Loro mi hanno chiesto se volevo collaborare soprattutto rispetto al tour in teatro. Ho detto che mi interessava ma non solo nelle vesti di chitarrista o solista ma portando i miei strumenti autocostruiti e proponendo anche performance improvvisate. Questa proposta è stata recepita in maniera molto positiva, tanto che, nelle occasioni in cui abbiamo fatto gli spettacoli in teatro, iniziavamo così io e Manuel, io con gli strumenti e Manuel leggendo. Una novità stimolante sia per loro che per me. E da lì finito il tour in teatro ci siamo detti: ”perché non proviamo a immaginarci di fare qualcosa innanzitutto dal vivo? vediamo come ci troviamo. quindi… è tornato un po’ di rock’n’roll nella mia vita! Già continuavo a fare concerti rock con altri gruppi, altri elementi, però gli After sono la principale band di rock’n’roll che abbia segnato il mio percorso di vita non solo come musicista ma anche come appassionato, perché io sono anche cresciuto con loro . Nel corso degli anni la band ha conservato continuamente una media abbastanza buona e soprattutto dal vivo ha sempre sprigionato un’energia strafottente, non badando al volere del pubblico, del sistema, evitando un meccanismo in cui spesso le band di rock’n’roll finiscono col cadere.

Cosa ne pensi dell’attuale situazione musicale italiana, parlo in particolare della scena indipendente…
Secondo me la scena è molto florida, credo ci siano parecchie realtà nel sottobosco interessanti, nuove formule anche tra i giovanissimi. Come spesso accade però, ci sono anche tantissime energie sprecate, realtà che sono molto derivative. Fortunatamente, con il negozio, ho avuto la possibilità di toccare con mano questo movimento. Veniva molta gente a portarmi cd e quindi ho ascoltato tanti lavori particolari, di valore e anche bizzarri. Io sento che c’è grande voglia di fare, grande fermento. Il problema non è la qualità artistica delle proposte, ma tutto quello che gli ruota attorno. Questo fa si che, innanzitutto, un ragazzo che voglia coltivare questa passione, pur avendo anche delle buone idee, venga “smonato” da com’è il sistema, da com’è difficile poter fare il musicista in questo paese. Com’è possibile concentrarsi e applicare tutte le proprie forze ed energie in tal senso?! La questione è sempre: chi ce la farà? Chi sarà più forte ? Chi avrà alle spalle i sostegni economici maggiori per riuscire o chi prenderà il largo e se ne andrà all’estero a fare una serie di esperienze, si consoliderà e poi tornerà in Italia forte di questo?! Ci possono essere tante strade, ma trovo che ci sia valore, mi capita spesso di ascoltare proposte interessanti.

Personalmente mi piace molto il nuovo lavoro di paolo saporiti nel quale la tua presenza ha dato una notevole impronta al suono. Com’è nata questa collaborazione?
Io e Paolo ci siamo conosciuti attraverso soundmetak. Lui è una delle persone che, nei cinque anni di apertura, è venuta duetre volte a fare delle performance e concerti, anche con formazioni differenti. Per me lui è un autore di valore e un ottimo interprete. I live di Paolo sono molto belli, interessanti e toccanti. Riesce a creare proprio quel filo di collegamento tra lui e l’ascoltatore. Avevo già suonato in un suo mini di svariati anni fa alcune parti con i miei strumenti. Siccome siamo anche amici,ora gli è venuta l’esigenza di dirmi : “guarda Xabier, io vorrei fare un disco con delle sonorità diverse, con un mondo sonoro proprio completamente separato, lontano da quello che era il passato. Conoscendoti, ti chiedo schiettamente se avresti voglia di farlo…”. Ho ascoltato i brani, trovato delle soluzioni e costruito un telaio sul quale proporre questo cantautore con un impianto un pochino sporco, deragliato. Quindi ho suonato alcune parti e, soprattutto, ho mixato e prodotto il tutto. È un disco abbastanza internazionale un pochino fuori dagli schemi. Se tu arrivi con un suono e un’idea di arrangiamento abbastanza particolari puoi lasciare il segno, magari creando una nuove chiave di lettura delle canzoni di partenza.

Tra le decine di progetti a cui hai partecipato, spesso da protagonista a quale sei più legato?
Come si può dire qual è il bambino preferito tra i figli che hai? Tra le realtà più importanti del mio percorso musicale ci sono senza dubbio gli Afterhours, visto che ci ho suonato per tanto tempo e tuttora ci suono. Poi, probabilmente del passato, i SixMinutesWarMadness e The Short Apnea sono le realtà che mi hanno formato in un senso non rock’n’roll abbastanza unico. Di quelli degli ultimi anni senza ombra di dubbio ricorderei gli Uncode Duello, the Shipwreck Bag Show e NoGuru. In realtà sono veramente tanti, ma se dovessi comunque delineare delle linee guida del mio percorso, sia nell’ambito rock che in quello più avanguardistico, confermerei di sicuro i nomi appena detti. Ci sono poi state tantissime cellule impazzite e anche progetti molto piccolini che mi hanno dato soddisfazione. Sicuramente però, il fatto che non li abbia portati avanti, nel bene e nel male, significa che non erano le scarpe precisissime nelle quali volevo stare.

Un tuo consiglio a chi vuole fare della musica la sua professione?

Fare tante esperienze lontano da questo paese. Andare a suonare per strada, facendo il busker, provare esperienze in ambiti musicali diversi, andare nelle nazioni dove la musica pop moderna è nata, come gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Spingersi anche in luoghi lontani: penso all’Oriente, all’Africa dove ci sono un sacco di possibilità per apprendere nuove suggestioni che ci stacchino dai nostri schemi e sistemi musicali.

Fare un viaggio in India per imparare cos’è la musica indiana potrebbe aprire tantissimo la mente perché s’incontra un sistema di vita e cultura basato su altre regole. Io direi quindi di viaggiare, conoscere più persone, fare il maggior numero di esperienze possibili e poi consolidare la propria idea, il proprio progetto, la propria personalità. Non è importante suonare, suonare lo può fare chiunque! Avere qualcosa da dire nel senso artistico del termine è la cosa più complessa e difficile. Per fare in modo di consolidare sé stessi rispetto alla propria idea progettuale è indispensabile fare tanta esperienza confrontandosi con gli altri. Questo da anche la possibilità di sviluppare una maggiore capacità di autocritica. Se sei sempre da solo e circondato da persone che ti ripetono:”quanto sei bravo, mi piace quello che fai!” finisci col costruirti un altarino. Invece se ti confronti e vedi che nel mondo ci sono proposte talmente varie e di sicuro superiori alla tua, può nascerti lo stimolo per cercare e creare cose nuove, più uniche, più vere…

Cosa c’è nel futuro di xabier iriondo? Innanzitutto cercare di vivere più anni possibili per potermi godere la mia vita, mia figlia, mia moglie,le mie amicizie, poter viaggiare molto e, se fosse possibile, suonare talmente tanto e a lungo da realizzare tanti progetti diversi…

Carroponte, Settembre 2012Xabier Iriondo, chitarrista autodidatta, sperimentatore, ricercatore, manipolatore di suoni con numerosi progetti all’attivo. Nel 2010 rientra in quella che Manuel Agnelli non esita a definire la migliore formazione degli Afterhours di sempre.

A fine settembre 2012 pubblica, per Wallace Records, il suo primo vero disco solista: “Irrintzi”. Lo abbiamo incontrato al Carroponte di Sesto San Giovanni prima di un esplosivo concerto con gli Afterhours, dove, con grande disponibilità, ci ha raccontato un po’ di lui.

Irrintzi vuole essere un omaggio alle tue radici. Quanto ha inciso e ti ha influenzato la musica tradizionale basca nella tua carriera musicale?
nella mia carriera musicale non saprei definirlo con esattezza, sicuramente nella mia persona perché ci sono cresciuto sin da quando ero bambino. Io sono di origine basca, mio padre era basco e, pur essendo nato a Milano, ho sempre passato quattro mesi all’anno circa là e continuo ad andarci tutti gli anni, avendo famiglia e amici. La passione legata alla musica tradizionale basca è qualcosa che mi accompagna come accompagna un pochino tutti i baschi. La tradizione folk è molto sentita, molto forte e i giovani suonano gli strumenti caratteristici in maniera classica. Alcuni li suonano anche in maniera un pochino bizzarra ed io ho sempre avuto queste sonorità intorno a me. Il suono del txistu che è una specie di flauto clarinetto, tumtum, tamborra, la stessa txalaparta che è uno strumento molto primitivo, quasi ancestrale, che si suona ancora adesso con dei bastoni sopra delle assi di legno, alle feste patronali e non solo. Diciamo che ho sempre coltivato un background di certe sonorità, di certe melodie un pochino atipiche del panorama folk italiano. Non so poi quanto abbiano inciso realmente sul mio percorso. Soltanto in una forma più matura, negli ultimi 67 anni, ho iniziato a ragionarci non solo a livello emotivo, ma anche in modo più organizzato, sia artisticamente che musicalmente. Ho sentito la necessità di capire se potevo trovare dei connubi per inserire i suoni della tradizione basca nelle texture più sature di alcune mie sonorità.

La sperimentazione e ricerca sonora e’ sempre stata una tua caratteristica fin dai tempi in cui entrasti a far parte degli Afterhours. da dove nasce questa tua passione?

Dall’infanzia. Sono stato un bambino e poi un ragazzo che amava provare, curiosare, osservare un sacco di cose che lo circondavano, per trovare poi un modo personale di utilizzarle ed applicarle. L’input che mi ha portato a suonare la chitarra elettrica a 17 anni è stato sicuramente l’impulso adolescenziale di voler stare su un palco, ma anche e soprattutto di giocare con questi suoni, con questi timbri. La chitarra elettrica è uno strumento che ha di per sé già più suoni di base perché ha più magneti che catturano il suono posizionati sul corpo dello strumento e attraverso tutte queste scatolettine colorate dalle quali fuoriuscivano sonorità che erano lontane dal bagaglio della chitarra a corde tradizionale. Questa cosa mi ha sempre accompagnato insieme alla voglia di giocare e sperimentare.

Oltre ad essere un eclettico musicista e chitarrista sei anche un “costruttore” di strumenti particolari. ci parleresti di questi strumenti “preparati”?

Ad un certo punto del mio percorso, circa 12/13 anni fa, ho iniziato a sentire l’esigenza di utilizzare delle sonorità in maniera diversa. Non soltanto lavorare sul suono ma anche sulle tecniche che gli potevo applicare. Ho pensato che suonare la chitarra in modo non tradizionale poteva portarmi a delle nuove sonorità. Ricordo esperimenti legati al fatto di prendere la chitarra, sdraiarla ed usarla orizzontalmente, piuttosto che di cambiare le corde. Tutta una serie di esperimenti che si fanno agli inizi. Da lì è nato poi l’interesse di provare a lavorare in maniera intuitiva per

 

costruire uno strumento ad hoc e l’ho fatto in occasione di un tour con Damo Suzuki. Un pomeriggio sono andato al brico center, ho comprato dei pezzi e mi sono costruito questo strumento molto primitivo con cui ci ho fatto un tour all’estero. Era una specie di prototipo che mi ha accompagnato per diversi anni e che conservo tuttora. Certo, un pochino improbabile e soprattutto poco utilizzabile, nel senso che non riuscivo a mantenerlo sempre ben accordato. Quando poi ho aperto il mio negozio di strumenti musicali ho sentito di nuovo forte l’esigenza di approfondire lo studio di uno strumento ad hoc, con cui potessi

creare veramente tutte le sonorità che avevo in testa e che non riuscivo a tirare fuori da una chitarra elettrica tradizionale, con i pedali e l’amplificatore. Ho ideato uno strumento a 10 corde con un diapason molto più corto rispetto a una chitarra, una lap steel, implementando dell’elettronica al suo interno, quindi degli oscillatori, dei fad, facendomi costruire dei magneti apposta a mano (perché non esistono magneti a 10 poli) ed ideando praticamente uno strumento partendo da un disegno. Io non ho l’abilità di usare le mani e allora ragionandoci con un liutaio ho detto: “facciamo un disegno, lavoriamolo con una macchina che lo possa scavare, una macchina a controllo numerico e poi facciamo in modo che possa essere smussato e lavorato a mano”. L’ho fatto non soltanto per me ma anche per una serie di clienti che me l’hanno comprato negli anni di apertura del negozio. La necessità è venuta dal fatto di continuare a sperimentare e trovare dei nuovi modi di interpretare le so

norità che avevo in testa. Questo strumento riesce ad avere una gamma sonora timbrica che va da suoni molto più profondi del basso elettrico a suoni acutissimi quasi sintetici. Ho smesso per due anni e mezzo di suonare la chitarra quando ho ideato questo strumento perché non volevo applicare le tecniche della chitarra sullo stesso. Quindi ho detto: “ reinventiamoci e mettiamoci a giocare…” . Con gli afterhours lo uso pochissimo, solo in due brani dal vivo per poche cose, invece nella mia attività solista è lo strumento principale.

Sound Metak, tra il 2005 e il 2010 è stato un negozio laboratorio di strumenti musicali, ma anche un luogo di incontro di artisti e di idee con performance dal vivo. Com’è nata l’idea e perché ne hai interrotto l’attività?In realtà la chiusura era prevista fin dall’inizio, si trattava un piano quinquennale. Io ragiono così nella mia vita. Ragiono a blocchi a idee a progetti e non immagino di andare avanti una vita a fare la stessa cosa, non mi interessa. Era dalla fine del 2003 che lo volevo aprire ci ho messo oltre un anno a trovare il luogo, a organizzare quel réseau di clienti e di fornitori soprattutto. Questi li ho conosciuti tutti di persona, volevo avere un rapporto diretto con loro, anche se venivano da molto lontano (dagli Stati Uniti al Nord Europa, Germania in particolare). Si andava dagli strumenti legati alla musica folk: monocorde,

kalimbe, ecc. fino ad arrivare agli strumenti elettronici autocostruiti: pedali per chitarra, sintetizzatori e via dicendo… Avevo in progetto di creare una piccola isola a Milano che offrisse uno spazio fuori dai generis. Una specie di scheggia impazzita nella quale potessero accedere artisti che proponevano suggestioni molto diverse: dal cantautorato all’hard core, alla musica elettronica, alla danza butoh, alle proiezioni video alle istallazioni. Il tutto rigorosamente gratuito, sia da parte dei fruitori che di coloro che venivano ad esibirsi. 125 performance in 5 anni, musicisti italiani e stranieri venuti senza alcun compenso, dopo che ho spiegato loro il mio tipo di progetto. Si è trattato di una “piccola bombetta da fare esplodere” per far capire quanto in realtà ogni spazio aperto al pubblico può rappresentare uno stimolo culturale. Penso ad esempio ad una pasticceria dove ci potrebbe essere un reading di violoncello e voce, è una cosa che all’estero spesso accade. Da noi invece è abbastanza difficile concepirla, ma ho visto che la mia iniziativa ha avuto un successo impressionante. Il negozio era pieno, ha davvero suscitato curiosità. Ho visto entrare e godere delle performance anche soggetti mai immaginati prima e di età che non mi sarei aspettato. Io vivo così, mi è piaciuto scardinare qualche cosa, se qualcuno ha recepito ben venga, se questo non è accaduto mi spiace.

Manuel Agnelli ha dichiarato che quella attuale e’ la migliore formazione che gli Afterhours hanno mai avuto. e averti a fianco a lui sul palco gli da una carica particolare. Come hai vissuto questo ritorno?

L’ho vissuto in maniera molto molto positiva. Sono d’accordo con Manuel, tutti noi pensiamo che questa formazione sia la migliore. C’è una carica speciale, un amalgama emotiva e di amicizia abbastanza unica. Credo che il disco nuovo che abbiamo composto contenga dei germi di energia particolare che hanno fatto sì che questa formazione abbia una resa speciale. Per me è stato davvero bello, interessante e molto semplice ritornare. Loro mi hanno chiesto se volevo collaborare soprattutto rispetto al tour in teatro. Ho detto che mi interessava ma non solo nelle vesti di chitarrista o solista ma portando i miei strumenti autocostruiti e proponendo anche performance improvvisate. Questa proposta è stata recepita in maniera molto positiva, tanto che, nelle occasioni in cui abbiamo fatto gli spettacoli in teatro, iniziavamo così io e Manuel, io con gli strumenti e Manuel leggendo. Una novità stimolante sia per loro che per me. E da lì finito il tour in teatro ci siamo detti: ”perché non proviamo a immaginarci di fare qualcosa innanzitutto dal vivo? vediamo come ci troviamo. quindi… è tornato un po’ di rock’n’roll nella mia vita! Già continuavo a fare concerti rock con altri gruppi, altri elementi, però gli After sono la principale band di rock’n’roll che abbia segnato il mio percorso di vita non solo come musicista ma anche come appassionato, perché io sono anche cresciuto con loro . Nel corso degli anni la band ha conservato continuamente una media abbastanza buona e soprattutto dal vivo ha sempre sprigionato un’energia strafottente, non badando al volere del pubblico, del sistema, evitando un meccanismo in cui spesso le band di rock’n’roll finiscono col cadere.

Cosa ne pensi dell’attuale situazione musicale italiana, parlo in particolare della scena indipendente…
Secondo me la scena è molto florida, credo ci siano parecchie realtà nel sottobosco interessanti, nuove formule anche tra i giovanissimi. Come spesso accade però, ci sono anche tantissime energie sprecate, realtà che sono molto derivative. Fortunatamente, con il negozio, ho avuto la possibilità di toccare con mano questo movimento. Veniva molta gente a portarmi cd e quindi ho ascoltato tanti lavori particolari, di valore e anche bizzarri. Io sento che c’è grande voglia di fare, grande fermento. Il problema non è la qualità artistica delle proposte, ma tutto quello che gli ruota attorno. Questo fa si che, innanzitutto, un ragazzo che voglia coltivare questa passione, pur avendo anche delle buone idee, venga “smonato” da com’è il sistema, da com’è difficile poter fare il musicista in questo paese. Com’è possibile concentrarsi e applicare tutte le proprie forze ed energie in tal senso?! La questione è sempre: chi ce la farà? Chi sarà più forte ? Chi avrà alle spalle i sostegni economici maggiori per riuscire o chi prenderà il largo e se ne andrà all’estero a fare una serie di esperienze, si consoliderà e poi tornerà in Italia forte di questo?! Ci possono essere tante strade, ma trovo che ci sia valore, mi capita spesso di ascoltare proposte interessanti.

Personalmente mi piace molto il nuovo lavoro di paolo saporiti nel quale la tua presenza ha dato una notevole impronta al suono. Com’è nata questa collaborazione?
Io e Paolo ci siamo conosciuti attraverso soundmetak. Lui è una delle persone che, nei cinque anni di apertura, è venuta duetre volte a fare delle performance e concerti, anche con formazioni differenti. Per me lui è un autore di valore e un ottimo interprete. I live di Paolo sono molto belli, interessanti e toccanti. Riesce a creare proprio quel filo di collegamento tra lui e l’ascoltatore. Avevo già suonato in un suo mini di svariati anni fa alcune parti con i miei strumenti. Siccome siamo anche amici,ora gli è venuta l’esigenza di dirmi : “guarda Xabier, io vorrei fare un disco con delle sonorità diverse, con un mondo sonoro proprio completamente separato, lontano da quello che era il passato. Conoscendoti, ti chiedo schiettamente se avresti voglia di farlo…”. Ho ascoltato i brani, trovato delle soluzioni e costruito un telaio sul quale proporre questo cantautore con un impianto un pochino sporco, deragliato. Quindi ho suonato alcune parti e, soprattutto, ho mixato e prodotto il tutto. È un disco abbastanza internazionale un pochino fuori dagli schemi. Se tu arrivi con un suono e un’idea di arrangiamento abbastanza particolari puoi lasciare il segno, magari creando una nuove chiave di lettura delle canzoni di partenza.

Tra le decine di progetti a cui hai partecipato, spesso da protagonista a quale sei più legato?
Come si può dire qual è il bambino preferito tra i figli che hai? Tra le realtà più importanti del mio percorso musicale ci sono senza dubbio gli Afterhours, visto che ci ho suonato per tanto tempo e tuttora ci suono. Poi, probabilmente del passato, i SixMinutesWarMadness e The Short Apnea sono le realtà che mi hanno formato in un senso non rock’n’roll abbastanza unico. Di quelli degli ultimi anni senza ombra di dubbio ricorderei gli Uncode Duello, the Shipwreck Bag Show e NoGuru. In realtà sono veramente tanti, ma se dovessi comunque delineare delle linee guida del mio percorso, sia nell’ambito rock che in quello più avanguardistico, confermerei di sicuro i nomi appena detti. Ci sono poi state tantissime cellule impazzite e anche progetti molto piccolini che mi hanno dato soddisfazione. Sicuramente però, il fatto che non li abbia portati avanti, nel bene e nel male, significa che non erano le scarpe precisissime nelle quali volevo stare.

Un tuo consiglio a chi vuole fare della musica la sua professione?

Fare tante esperienze lontano da questo paese. Andare a suonare per strada, facendo il busker, provare esperienze in ambiti musicali diversi, andare nelle nazioni dove la musica pop moderna è nata, come gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Spingersi anche in luoghi lontani: penso all’Oriente, all’Africa dove ci sono un sacco di possibilità per apprendere nuove suggestioni che ci stacchino dai nostri schemi e sistemi musicali.

Fare un viaggio in India per imparare cos’è la musica indiana potrebbe aprire tantissimo la mente perché s’incontra un sistema di vita e cultura basato su altre regole. Io direi quindi di viaggiare, conoscere più persone, fare il maggior numero di esperienze possibili e poi consolidare la propria idea, il proprio progetto, la propria personalità. Non è importante suonare, suonare lo può fare chiunque! Avere qualcosa da dire nel senso artistico del termine è la cosa più complessa e difficile. Per fare in modo di consolidare sé stessi rispetto alla propria idea progettuale è indispensabile fare tanta esperienza confrontandosi con gli altri. Questo da anche la possibilità di sviluppare una maggiore capacità di autocritica. Se sei sempre da solo e circondato da persone che ti ripetono:”quanto sei bravo, mi piace quello che fai!” finisci col costruirti un altarino. Invece se ti confronti e vedi che nel mondo ci sono proposte talmente varie e di sicuro superiori alla tua, può nascerti lo stimolo per cercare e creare cose nuove, più uniche, più vere…

Cosa c’è nel futuro di xabier iriondo? Innanzitutto cercare di vivere più anni possibili per potermi godere la mia vita, mia figlia, mia moglie,le mie amicizie, poter viaggiare molto e, se fosse possibile, suonare talmente tanto e a lungo da realizzare tanti progetti diversi…

Carroponte, Settembre 2012

All About Jazz Italia – Moontower

Chi avrebbe mai pensato che la fantasia e l’estroversione incontenibili di Dave King (The Bad Plus, Happy Apple) nascondessero una sottile passione per la musica atmosferica e rarefatta di questo Moontower? Eppure è già la seconda volta (dopo il omonimo, Craig Green + David King) sempre per l’etichetta italiana Long Song Records) che, in compagnia dell’ottimo chitarrista Craig Green, King si scioglie in questa celebrazione dell’indeterminato, dell’intimistico “paesaggio sonoro,” con risultati di tutto rispetto.

La tavolozza musicale del duo consta di percussioni, chitarre, tastiere elettroniche. Manipolate tutto sommato alla vecchia maniera, senza troppi giochi di prestigio e senza sovraincisioni. Si mette a frutto qui la perizia strumentale che si allarga all’intelligenza generativa per suoni anomali ma soprattutto l’abilità di trasporre in contesti misteriosi oggetti consueti come un tamburello, un organo, così come il delay chitarristico e i bagliori elettrici di un pc.

All’inizio dell’album si coglie quella poetica del ronzio ben spiegata da Paul Morley in Words and Music: bordoni, ripetizioni, le risonanze ambientali. Poi però, già da “The Best Western,” la lunga suite che compone il disco comincia a viaggiare in territori filmici, evocando ampi spazi notturni, coniugando Frisell e Morricone, con un minimo di armonia. Anche Eno&Fripp vengono in mente mentre scorre “Blackwell Star Galactica”. Qualcosa di davvero originale si accende con “Moontower,” con le sue false partenze, le decelerazioni e gli scarti ritmici che portano l’ascoltatore verso un linguaggio più formale, vicino all’improvvisazione jazz. Da qui in avanti, i due strumentisti si scaldano, si lasciano più andare al fraseggio e alla conversazione ravvicinata (anche se in “Craig Green” ci sono le sequenze più sperimentali..) e concludono con una bonus track di ottimo interplay.

Bella scoperta quella di Green, conferma per King, che mostra una sensibilità e un controllo espressivo fuori dall’ordinario.

Minimalismo senza clichè.Chi avrebbe mai pensato che la fantasia e l’estroversione incontenibili di Dave King (The Bad Plus, Happy Apple) nascondessero una sottile passione per la musica atmosferica e rarefatta di questo Moontower? Eppure è già la seconda volta (dopo il omonimo, Craig Green + David King) sempre per l’etichetta italiana Long Song Records) che, in compagnia dell’ottimo chitarrista Craig Green, King si scioglie in questa celebrazione dell’indeterminato, dell’intimistico “paesaggio sonoro,” con risultati di tutto rispetto.

La tavolozza musicale del duo consta di percussioni, chitarre, tastiere elettroniche. Manipolate tutto sommato alla vecchia maniera, senza troppi giochi di prestigio e senza sovraincisioni. Si mette a frutto qui la perizia strumentale che si allarga all’intelligenza generativa per suoni anomali ma soprattutto l’abilità di trasporre in contesti misteriosi oggetti consueti come un tamburello, un organo, così come il delay chitarristico e i bagliori elettrici di un pc.

All’inizio dell’album si coglie quella poetica del ronzio ben spiegata da Paul Morley in Words and Music: bordoni, ripetizioni, le risonanze ambientali. Poi però, già da “The Best Western,” la lunga suite che compone il disco comincia a viaggiare in territori filmici, evocando ampi spazi notturni, coniugando Frisell e Morricone, con un minimo di armonia. Anche Eno&Fripp vengono in mente mentre scorre “Blackwell Star Galactica”. Qualcosa di davvero originale si accende con “Moontower,” con le sue false partenze, le decelerazioni e gli scarti ritmici che portano l’ascoltatore verso un linguaggio più formale, vicino all’improvvisazione jazz. Da qui in avanti, i due strumentisti si scaldano, si lasciano più andare al fraseggio e alla conversazione ravvicinata (anche se in “Craig Green” ci sono le sequenze più sperimentali..) e concludono con una bonus track di ottimo interplay.

Bella scoperta quella di Green, conferma per King, che mostra una sensibilità e un controllo espressivo fuori dall’ordinario.

Minimalismo senza clichè.

cloudsandclocks.net – Gongfarmer 36

A small package which appeared totally out of the blue in my mailbox makes it possible for me to update the story of US guitarist Jim McAuley, four years after the release of his fine “variable line-up” double CD titled The Ultimate Frog. Readers will recall that my first encounter with Jim McAuley’s music had also been born out of serendipity, also thanks to my mailbox.

In my review of said album I had half-jokingly filed the featured music under “Incus meets Takoma”, that is to say an approach to improvisation which makes ample reference to traits that are peculiar to various strains of American music and which made apparent McAuley’s “thematic” approach – a definition that can be used to indicate a “theme” as the word is nowadays commonly understood, but also a “climate” or a “mood” – while making use of many guitar techniques that are “indigenous” to those styles.

An album of duets, The Ultimate Frog closing track was a piece for solo guitar, For Rod Poole: a very fine performance that made me curious about a McAuley solo album. Such an album did, in fact, exist, having been released under the title Gongfarmer 18 in 2005 by Nine Winds. Meanwhile, it was with great surprise that I happened to learn from McAuley himself – my curiosity about his music and his life made me ask him for an interview – that with the only exception of an album on Incus titled Acoustic Guitar Trio, the music featured on Gongfarmer 18 more or less told “the whole story” when it came to adult-age McAuley.

It’s with a pinch of contrition that I have to admit that to this day I’ve never listened to Gongfarmer 18. So I can’t trace any smart comparison between tracks titled Dark Blooming, Blues For Wally Blanchette, Eyelids Of Buddha, and Nika’s Waltz (and maybe Kneebounce), and those which appear on the new album under titles such as Second Blooming, Blues For John Carter, The Eyelids Of Buddha, and nika’s Waltz (and maybe Plect’s Bounce).

But I can trace a parallel between tracks off The Ultimate Frog such as nika’s Love Ballad and Jump Start, which were featured in duo format with Nels Cline’s string instruments, and November Night, a duo with Alex Cline’s percussion, and those solo versions of nika’s Waltz, Jumpstart, and Another November Night which are featured on Gongfarmer 36.

Jim McAuley’s new album assembles tracks of various origin and vintage, with alternate takes of tracks that already appeared in a studio guise, tracks recorded live, new tracks, and even a home-made DAT recording, with fine recorded sound and a remarkable musical coherence. It’s an “accessible” album, not at all “difficult”, though it’s a bit unclear to me what its potential buying audience could be.

This could be entirely due to my deficient imagination, of course, though I can easily recall a time when “music for guitarists” – such being the name we used to indicate those mostly acoustic, mostly US-originated albums – was featured on “rock” magazines (true, those were also the times of successful acoustic tours of groups such as Hot Tuna and Grateful Dead), while today’s scenario is quite nebulous.

Let’s have a look at the tracks.

Second Blooming, for classical guitar, is a “permutation” of flamenco, with a fine lyrical quality.

Blues For John Carter, for steel string, sounds like a fusion of blues and far-east slide, with “dramatic” arpeggios, and a “suspension” of narrative. Not to be missed, a light but sad little theme which appears about halfway, and also at the close of the track.

Another November Night, with its “rainy” and “menacing” climate, and which features sounds which are almost onomatopoeic, highlights those “raindrops” from the 12-string with a tuning fork. Full chords, slidin’. A tense mood, quite dissonant, then a “pedal”.

What Part Of Maybe (Don’t You Understand?), quite brief, for dobro and slide, is an “implicit/explicit” country-blues.

Una Lunga Canzone, for classical guitar, is a long home improvisation recorded on DAT. Maybe a bit “looser” than those other tracks, it shows a spirit that’s quite “in the moment”. There’s a clear melodic mood, a slow “rumination”. Some “jazz” moments are also noteworthy, with much “swing”, at about halfway.

Joy Buzzer, quite brief, for classical guitar, and emery board.

At about 11′, The Eyelids Of Buddha, for 12-string and slide, is the longest track on the album. Harmonics galore! There’s a fine theme, meditative, and quite melancholic. This track shows a “progression”, a “direction”, though the featured material are quite diverse.

Plect’s Bounce, for prepared guitar, has some microtonal bass notes, almost like a koto. Sounds brief, but it ain’t.

Saltarello/Jumpstart is a combination of a Renaissance “dance” piece penned by Vincenzo Galilei (according to the album’s liner notes, at least) and – after a brief passage rich with harmonics – Jumpstart, whose theme is quite easy to recognize. There’s a “blues” mood for classical guitar, which goes hand-in-hand with the “dance” nature of the preceding track.

In closing, nika’s Waltz is a delicate piece for 12-string and slide sounding halfway between a harpsichord and a musical box. There’s a melodic theme played “slide”, with high notes above an arpeggiated ostinato. “Smorzando”… and a warm applause (to the track and, by inference, the whole album).

stordisco.blogspot.it – Irrintzi

Iriondo, dopo anni passati a vestire i panni del navigatore, si siede per la prima volta al volante e, con la decisione e la naturalezza di chi sa perfettamente come si guida, dà gas; l’obiettivo è apertamente quello di intraprendere un viaggio sonoro che lo porti a visitare i luoghi della sua crescita, sia umana che musicale.

Da subito ci mostra il forte attaccamento alle origini basche, sia nelle sonorità ricche di strumenti folk e urla stridenti di “Elektraren Aurreskua” e “Il Cielo Sfondato”, sia nella testimonianza diretta, dalla viva voce del padre Kermel, sulla strage di Guernica (“Gernika eta Bermeo”), toccante capitolo storico-documentaristico del disco.

Ma non è che l’inizio; strada facendo ritroviamo quelle delizie elettriche, sperimentali, ruvide che sono state gioia per il palato dei musicisti milanesi (e non solo) ai tempi dell’ormai compianto SoundMetak, laboratorio musicale che lo stesso Iriondo aprì a metà del decennio scorso, presentate con il contributo attivo degli amici di sempre,Manuel Agnelli e parte degli Afterhours nella Lennoniana “Cold TurkeyPaolo Saporiti a sostituire la voce del Boss in “Reason To Believe e Bruno Dorella in “Hammer”, reinterpretazione acida e lo-fi di un classico firmato Motorhead.

A condire il tutto, il taglio politico di “Preferirei Piuttosto Gente per Bene Gente per Male, surreale incontro sonoro-concettuale tra la rapsodia meccanica di Francesco Currà e le celeberrime liriche del duo Mogol-Battisti, e dell’ inno antifranchista “Itziar en Semea, scorporato e riproposto in una personalissima versione noise.

Il viaggio di Iriondo quindi non può che essere considerato perfetto, quella perfezione soggettiva, preziosa, difficilmente visibile agli occhi esterni, ma naturale, quasi prevedibile per chi riesce ad ascoltare con il cuore.

Dopo anni passati sulla strada, alla domanda “favorisca i documenti”, ora Iriondo può permettersi di esibire Irrintzi, il migliore tra i documenti identificativi.Iriondo, dopo anni passati a vestire i panni del navigatore, si siede per la prima volta al volante e, con la decisione e la naturalezza di chi sa perfettamente come si guida, dà gas; l’obiettivo è apertamente quello di intraprendere un viaggio sonoro che lo porti a visitare i luoghi della sua crescita, sia umana che musicale.

Da subito ci mostra il forte attaccamento alle origini basche, sia nelle sonorità ricche di strumenti folk e urla stridenti di “Elektraren Aurreskua” e “Il Cielo Sfondato”, sia nella testimonianza diretta, dalla viva voce del padre Kermel, sulla strage di Guernica (“Gernika eta Bermeo”), toccante capitolo storico-documentaristico del disco.

Ma non è che l’inizio; strada facendo ritroviamo quelle delizie elettriche, sperimentali, ruvide che sono state gioia per il palato dei musicisti milanesi (e non solo) ai tempi dell’ormai compianto SoundMetak, laboratorio musicale che lo stesso Iriondo aprì a metà del decennio scorso, presentate con il contributo attivo degli amici di sempre,Manuel Agnelli e parte degli Afterhours nella Lennoniana “Cold TurkeyPaolo Saporiti a sostituire la voce del Boss in “Reason To Believe e Bruno Dorella in “Hammer”, reinterpretazione acida e lo-fi di un classico firmato Motorhead.

A condire il tutto, il taglio politico di “Preferirei Piuttosto Gente per Bene Gente per Male, surreale incontro sonoro-concettuale tra la rapsodia meccanica di Francesco Currà e le celeberrime liriche del duo Mogol-Battisti, e dell’ inno antifranchista “Itziar en Semea, scorporato e riproposto in una personalissima versione noise.

Il viaggio di Iriondo quindi non può che essere considerato perfetto, quella perfezione soggettiva, preziosa, difficilmente visibile agli occhi esterni, ma naturale, quasi prevedibile per chi riesce ad ascoltare con il cuore.

Dopo anni passati sulla strada, alla domanda “favorisca i documenti”, ora Iriondo può permettersi di esibire Irrintzi, il migliore tra i documenti identificativi.

squidsear.com – Gongfarmer 36

There’s a class of guitar experimenters who could be described as employing strict precision over freeform expressiveness. The music isn’t lacking in emotive impact — in fact, the rigorous control might in some ways allow the individual to stand out more.

Some of the forebears of strict-time improvisation are no longer with us. John Fahey, Michael Hedges and Rod Poole all died before their work seemed done. But others remain, one being Jim McAuley, who recorded in a trio with Poole and Nels Cline for a fantastic record released on Incus, the label co-founded by outré guitar godfather Derek Bailey. A second Acoustic Guitar Trio record was released by Long Song Records, and that label has now released a follow-up to McAuley’s excellent Gongfarmer 18, issued in 2005 by Nine Winds Records.

Gongfarmer seems to mean a survey of technique to McAuley: shortish tracks, generally five to six minutes, each exploring a different approach or preparation. On 36 he plays nylon, steel and 12 strings, and parlor and Dobro guitar, making additional use of a few simple objects (slide, tuning fork, emory board) to create ten distinct sound-fields for exploration. There’s a bluesiness to his playing at times; the tempo isn’t always strident but the precision in his playing is staggering. He gets into some prickly abstractions on “The Eyelids of Buddha” (at 11 minutes the longest track here) and some nice noise with vibrating implements on “Another November Night,” but it’s the nylon string excursions which are the most rewarding. The classical guitar isn’t heard as often in experimental music, so McAuley has more ground to stake as his own. On those four tracks he plays with baroque and flamenco guided by his own innovative spirit. And throughout, McAuley makes a beautifully uncommon music for guitar.

 There’s a class of guitar experimenters who could be described as employing strict precision over freeform expressiveness. The music isn’t lacking in emotive impact — in fact, the rigorous control might in some ways allow the individual to stand out more.

Some of the forebears of strict-time improvisation are no longer with us. John Fahey, Michael Hedges and Rod Poole all died before their work seemed done. But others remain, one being Jim McAuley, who recorded in a trio with Poole and Nels Cline for a fantastic record released on Incus, the label co-founded by outré guitar godfather Derek Bailey. A second Acoustic Guitar Trio record was released by Long Song Records, and that label has now released a follow-up to McAuley’s excellent Gongfarmer 18, issued in 2005 by Nine Winds Records.

Gongfarmer seems to mean a survey of technique to McAuley: shortish tracks, generally five to six minutes, each exploring a different approach or preparation. On 36 he plays nylon, steel and 12 strings, and parlor and Dobro guitar, making additional use of a few simple objects (slide, tuning fork, emory board) to create ten distinct sound-fields for exploration. There’s a bluesiness to his playing at times; the tempo isn’t always strident but the precision in his playing is staggering. He gets into some prickly abstractions on “The Eyelids of Buddha” (at 11 minutes the longest track here) and some nice noise with vibrating implements on “Another November Night,” but it’s the nylon string excursions which are the most rewarding. The classical guitar isn’t heard as often in experimental music, so McAuley has more ground to stake as his own. On those four tracks he plays with baroque and flamenco guided by his own innovative spirit. And throughout, McAuley makes a beautifully uncommon music for guitar.

chitarraedintorni.blogspot.it – Gongfarmer 36

Abbiamo già parlato di Jim McAuley in occasione della recensione del cd “Vignes” dell’Acoustic Guitar Trio. Allora avevo scritto di McAuley: “ha un suono più folk, ma anche a lui questa categoria sta stretta”. Nulla di più vero e questo eccellente, davvero eccellente cd, non ho paura di parlarne in termini sinceramente entusiastici, conferma le sensazioni precedenti. Jim McAuley appartiene a quella curiosa categoria di musicisti a cui non basta muoversi all’interno delle coordinate note del loro strumento. No, McAuley si pone a cavallo tra altri improvvisatori radicali come Derek Bailey, Fred Frith, Joe Morris e Renè Lussier e chitarristi acustici scuola Takoma come John Fahey e Robbie Basho, le sue musiche, le sue improvvisazioni si caratterizzano per uno stile unico e estremamente personale che però non è mai didascalico: sempre intenso, sempre lirico McAuley non copia mai da nessuno, neanche da se stesso.
Questo nuovo cd, seguito ideale del suo primo album da solista (“Gongfarmer 18″) è una ricca collezione di registrazioni da solista tratta da spettacoli live, registrazioni in studio e casalinghe e ben testimonia l’ampio spettro creativo e poetico di questo chitarrista. Siamo lontani anni luce da qualunque forma di protagonismo musicale mascherato da virtuosismi esasperati, ma se cercate tecniche non ortodosse, accordature aperte, una commistione continua di elementi jazz, blues, folk, elementi classici e contemporanei, questo disco fa per voi.
Molto bella la sua versione del “Saltarello” di Vincenzo Galilei. Uno dei dischi migliori del 2012.

Abbiamo già parlato di Jim McAuley in occasione della recensione del cd “Vignes” dell’Acoustic Guitar Trio. Allora avevo scritto di McAuley: “ha un suono più folk, ma anche a lui questa categoria sta stretta”. Nulla di più vero e questo eccellente, davvero eccellente cd, non ho paura di parlarne in termini sinceramente entusiastici, conferma le sensazioni precedenti. Jim McAuley appartiene a quella curiosa categoria di musicisti a cui non basta muoversi all’interno delle coordinate note del loro strumento. No, McAuley si pone a cavallo tra altri improvvisatori radicali come Derek Bailey, Fred Frith, Joe Morris e Renè Lussier e chitarristi acustici scuola Takoma come John Fahey e Robbie Basho, le sue musiche, le sue improvvisazioni si caratterizzano per uno stile unico e estremamente personale che però non è mai didascalico: sempre intenso, sempre lirico McAuley non copia mai da nessuno, neanche da se stesso.
Questo nuovo cd, seguito ideale del suo primo album da solista (“Gongfarmer 18″) è una ricca collezione di registrazioni da solista tratta da spettacoli live, registrazioni in studio e casalinghe e ben testimonia l’ampio spettro creativo e poetico di questo chitarrista. Siamo lontani anni luce da qualunque forma di protagonismo musicale mascherato da virtuosismi esasperati, ma se cercate tecniche non ortodosse, accordature aperte, una commistione continua di elementi jazz, blues, folk, elementi classici e contemporanei, questo disco fa per voi.
Molto bella la sua versione del “Saltarello” di Vincenzo Galilei. Uno dei dischi migliori del 2012.