E così sembra che ci siamo, l’ombra lunga del weird folk ha raggiunto anche le periferie italiche. Nel 2011 Gino Dal Soler scrisse il libro “The circle is unbroken” dove raccontava 40 anni di folk visionario e psichedelico e del coraggioso recupero che alcuni “manipoli” di appassionati stavano facendo in modo sporadico, anti economico e discontinuo cercando di allargarne nel frattempo le frontiere.
E se la maggior parte di essi appare e scompare nel mare magnum delle possibilità offerte da un mercato che ha ormai raggiunto dimensioni incontrollate, alcuni di essi sono arrivati nel corso di anni di lavoro tenace e paziente a consolidare una solida reputazione guadagnandosi il compito di proseguire sulla strada iniziata dai loro eroi.
Laboule è al suo primo disco ma la “carne” che mette qui sul fuoco è tanta, di ottima qualità e decisamente gustosa. I riferimenti sono quelli di Robbie Basho, visionario chitarrista che riuscì a fondere tra di loro con la sua chitarra acustica a 12 corde blues, musica indiana e pre war folk.
Accordature aperte, un approccio genuino e sincero, canzoni sussurrate, un senso di dilatazione dello spazio attorno alle sue note che affascina e ammalia .. il tempo lasciato sospeso tra le corde di una chitarra acustica.
Registrato in montagna, nella pace e solitudine del rifugio Menaggio questo disco cattura le dimensioni e gli spazi delle valli della Valtellina, Laboule ovvero Paolo Novellino, milanese di nascita, artista di adozione, dimostra una maturità artistica impressionante. Sì, i riferimenti sono Basho, Fahey e la primitive guitar ma Novellino metabolizza e rielabora questo glorioso passato rifiutando di lasciarsi imprigionare e allunga il suo sguardo nelle valli e oltre Milano.
Consigliatissimo
Jim McAuley’s second solo release, Gongfarmer 36 is a followup to 2005’s Gongfarmer 18, which introduced the LA guitarist’s avant-acoustica to a wider audience.
A mixture of inner- and outer-spaces, McAuley’s musical cosmology is both sparse and expansive, constrained and amoebic, a sound grounded in bareboned Mississippi Delta slide blues, often hunkering on a single-note drone, yet at the same time embracing an ethic of never-repeat-anything-you-did-before…ever. The results are not easy to describe, but the artistry is palpable. Tracks like “Second Blooming” and “Una Lunga Canzone” evince an affinity for flamenco techniques like rasqueado (finger strums), tremolo and golpas (rapping) whereas “Nika’s Waltz” sounds a bit like the opening of a raga performed on sarod (Indian fretless lute). There are many ‘blue notes’: the microtonal clusters over Travis-picked bass notes on “Blues for John Carter”; the swooping Hawaiian steel slides on “The Eyelids of Buddha” and the diddley- bow triplets of “Saltarello/Jumpstart”. On “Another November Night” McAuley’s unorthodox orchestration mimics a koto while the shuffling and scratching of “Joy Buzzer” are more ambiguous. But these are only approximations of what you might hear for yourself
Nel quarto [“Two For Joyce” n.d.r.] c’è un concerto triestino con Tippett (del 18-5-12), intensamente dedicato a James Joyce e perfettamente registrato. È forse quello in cui l’arte del contrabbas- sista si offre con maggiore ostensività, complice un partner la cui fantasia e il cui senso drammatico, specie quando sono declinati percussivamente, sembrano appartenere per elezione a quel nido di tensioni che diventa il contrabbasso del Maier più concentrato. I gesti precisi e raffinati del suo pizzicato fanno rimbalzare suoni duri e corti, dal timbro ambrato, stondati e ritmicamente carichi; quasi refrattari ai larghi tagli armonici. Con l’arco disegnano gracili ragnatele che oscillano e si afflosciano nel silenzio, oppure produ- cono violente strappate dal timbro sempre ricercato.
Nel quarto [“Two For Joyce” n.d.r.] c’è un concerto triestino con Tippett (del 18-5-12), intensamente dedicato a James Joyce e perfettamente registrato. È forse quello in cui l’arte del contrabbas- sista si offre con maggiore ostensività, complice un parter la cui fantasia e il cui senso drammatico, specie quando sono declinati percussivamente, sembrano appartenere per elezione a quel nido di tensioni che diventa il contrabbasso del Maier più concentrato. I gesti precisi e raffinati del suo pizzicato fanno rimbalzare suoni duri e corti, dal timbro ambrato, stondati e ritmicamente carichi; quasi refrattari ai larghi tagli armonici. Con l’arco disegnano gracili ragnatele che oscillano e si afflosciano nel silenzio, oppure produ- cono violente strappate dal timbro sempre ricercato.
Improvvisazione jazz forse no, usiamo un termine più generale: improvvisazione musicale. Fatta da due artisti che possiedono le tre cose fondamentali per essere – secondo una definizione cara a noi esseri umani – bravi musicisti. Le tre cose in questione sono la tecnica, l’esperienza e, la più importante, la curiosità.Keith Tippett è attivo da tanto di quel tempo che forse non se lo ricorda più: è molto probabile che ormai ragioni in termini di concerti piuttosto che di calendario: Keith, oltre che pilastro del pianismo avant-jazz inglese ed europeo da oltre quarant’anni, ha la particolarità di riuscire a dare vita ad un pianismo tanto inventivo e grandioso quanto profondo ed austero.
A lui, in questo bellissimo live a due registrato a Trieste, si unisce Giovanni Maier, uno dei migliori bassisti jazz italiani attivo da almeno vent’anni. Keith e Giovanni si conoscono da molto tempo e insieme hanno dato vita all’ensemble “Viva La Black” del trombettista Pino Minafra. Eccoci, dunque: questo live a due, un’esibizione immersa nei pentagrammi invisibili della sera. Una performance di 50 minuti di musica improvvisata, una sola affascinante traccia nella quale i due artisti sfoderano un’enciclopedia di gemme esecutive di rara bellezza.
Anche la copertina dell’album è particolarmente bella. Si può immediatamente comprendere che tipo di disco sia questo: uno di quelli che bisogna davvero ascoltare, e non lasciare in sottofondo, proprio per cogliere tutte le fughe, tutte le stonature attivamente volute, i guizzi e le invenzioni di pochi secondi. Il basso di Maier è molto corposo, ingombrante, e pare possedere un’infinita gamma di soluzioni e suoni: pizzicato, percosso, malmenato, accarezzato, abbracciato, picchettato. Tutti gli spigoli sonori creati dal basso vengono accompagnati dal trillo rapido o lento del piano di Tippett, che pare avere tantissime dita.
Non c’è uno strumento che fa l’accompagnamento o la base e l’altro è protagonista: è un gioco a due, si va di pari passo, e se c’è una presa di potere da parte di uno dei due, dura comunque poco. E’ un dialogo, come può accadere spesso nel jazz d’avanguardia, ma anche in quello più classico.
I bassi del basso, i picchi del piano. Due facce della stessa medaglia, che osano strade ardite, oppure rilassano l’orecchio con morbidi suoni. Si coglie facilmente quanto grande sia l’intesa fra Tippett e Maier: solo a metà traccia capiamo che il terzo strumento siamo noi, col nostro respiro curioso, mentre ci perdiamo un poco nelle possibilità umane di creare.
Gli uomini hanno costruito le città, hanno dato vita a chiese di rara bellezza e opere d’arte dal valore inestimabile, insomma hanno generato bellezza, sempre con i loro cuori e le loro mani. Nessuno strato soprannaturale, nessuna magia. Solo tessuti muscolari e cervello. La bellezza. E poi, appunto, poi c’è la musica. C’è un live come questo. E quindi c’è ancora speranza.
Improvvisazione jazz forse no, usiamo un termine più generale: improvvisazione musicale. Fatta da due artisti che possiedono le tre cose fondamentali per essere – secondo una definizione cara a noi esseri umani – bravi musicisti. Le tre cose in questione sono la tecnica, l’esperienza e, la più importante, la curiosità.Keith Tippett è attivo da tanto di quel tempo che forse non se lo ricorda più: è molto probabile che ormai ragioni in termini di concerti piuttosto che di calendario: Keith, oltre che pilastro del pianismo avant-jazz inglese ed europeo da oltre quarant’anni, ha la particolarità di riuscire a dare vita ad un pianismo tanto inventivo e grandioso quanto profondo ed austero.
A lui, in questo bellissimo live a due registrato a Trieste, si unisce Giovanni Maier, uno dei migliori bassisti jazz italiani attivo da almeno vent’anni. Keith e Giovanni si conoscono da molto tempo e insieme hanno dato vita all’ensemble “Viva La Black” del trombettista Pino Minafra. Eccoci, dunque: questo live a due, un’esibizione immersa nei pentagrammi invisibili della sera. Una performance di 50 minuti di musica improvvisata, una sola affascinante traccia nella quale i due artisti sfoderano un’enciclopedia di gemme esecutive di rara bellezza.
Anche la copertina dell’album è particolarmente bella. Si può immediatamente comprendere che tipo di disco sia questo: uno di quelli che bisogna davvero ascoltare, e non lasciare in sottofondo, proprio per cogliere tutte le fughe, tutte le stonature attivamente volute, i guizzi e le invenzioni di pochi secondi. Il basso di Maier è molto corposo, ingombrante, e pare possedere un’infinita gamma di soluzioni e suoni: pizzicato, percosso, malmenato, accarezzato, abbracciato, picchettato. Tutti gli spigoli sonori creati dal basso vengono accompagnati dal trillo rapido o lento del piano di Tippett, che pare avere tantissime dita.
Non c’è uno strumento che fa l’accompagnamento o la base e l’altro è protagonista: è un gioco a due, si va di pari passo, e se c’è una presa di potere da parte di uno dei due, dura comunque poco. E’ un dialogo, come può accadere spesso nel jazz d’avanguardia, ma anche in quello più classico.
I bassi del basso, i picchi del piano. Due facce della stessa medaglia, che osano strade ardite, oppure rilassano l’orecchio con morbidi suoni. Si coglie facilmente quanto grande sia l’intesa fra Tippett e Maier: solo a metà traccia capiamo che il terzo strumento siamo noi, col nostro respiro curioso, mentre ci perdiamo un poco nelle possibilità umane di creare.
Gli uomini hanno costruito le città, hanno dato vita a chiese di rara bellezza e opere d’arte dal valore inestimabile, insomma hanno generato bellezza, sempre con i loro cuori e le loro mani. Nessuno strato soprannaturale, nessuna magia. Solo tessuti muscolari e cervello. La bellezza. E poi, appunto, poi c’è la musica. C’è un live come questo. E quindi c’è ancora speranza.
Serve poco al pianista inglese e al contrabbassista giuliano per trovare la giusta intesa nel nome di Joyce: la traccia unica registrata nel corso de Le Nuove Rotte del Jazz 2012 a Trieste parte da piani apparentemente distanti (sgocciolature free del pianoforte, rimestar di corde sullo sfondo) per sfociare in un dialogo dapprima intimo, poi più vivace e contrastato, sempre attento a un ascolto reciproco che data alla militanza comune nei Viva La Black di Moholo. Tra rimandi e citazioni, accordi ribattuti e arpeggi lirici, camerismo classico e temi folk sudafricani, fragore rumorista e divagazioni ambientali, si procede in un susseguirsi di quadretti vibranti e suggestivi. GEMMA DI PALPITANTE INTENSITÀ.Serve poco al pianista inglese e al contrabbassista giuliano per trovare la giusta intesa nel nome di Joyce: la traccia unica registrata nel corso de Le Nuove Rotte del Jazz 2012 a Trieste parte da piani apparentemente distanti (sgocciolature free del pianoforte, rimestar di corde sullo sfondo) per sfociare in un dialogo dapprima intimo, poi più vivace e contrastato, sempre attento a un ascolto reciproco che data alla militanza comune nei Viva La Black di Moholo. Tra rimandi e citazioni, accordi ribattuti e arpeggi lirici, camerismo classico e temi folk sudafricani, fragore rumorista e divagazioni ambientali, si procede in un susseguirsi di quadretti vibranti e suggestivi. GEMMA DI PALPITANTE INTENSITÀ.
Piccoli fenomeni (italiani) crescono. Che poi, le parentesi qui si possono tranquillamente omettere, perché leLilies on Mars non suonano come le solite cose nostrane. Il che, vista l’ambizione dichiaratamente cosmopolita ed internazionalista del progetto, ostentata sin sin dal debutto (l’omonimo LP del 2008), non può che essere un bene. Messo da parte ogni residuo provincialismo, Dot to dot vola alto. Fa sua la lezione diCocteau Twins, dei songwriter più visionari (Syd Barrett) e degli shoegazer stile Slowdive per imbastire un flusso celestial-ambientale di riverberi, droni, melodiee eteree, visioni oniriche, con testi pregni di “sentimento oceanico”. Rispetto ai predecessori (il succitato debut e Wish you were a pony), le trame sono più eteree, soporifere: meno elettricità, più elettronica. Soprattutto, Lisa Masia e Marina Cristofalo garantiscono una maggiore omogeneità e coesione del loro ordito sonoro: sono praticamente nulli gli sbandamenti, i punti deboli o le incertezze nelle tredici tracce.
Dot to dot, insomma, è un lavoro adulto. Autonomo al punto tale che il featuring di Franco Battiato in Oceanic landscape rischia di risultare quello sì un po’ ridondante. Ma è un eccesso di zelo perdonabile: come fai a dire di no a Battiato, soprattutto se è il tuo mentore e una delle tue influenze dichiarate (sul primo LP le due avevano coverizzato No u turn)? Il tono misticheggiante la fa da padrone in tutto il disco, ma senza pedanterie o forzature: Dram of bees è una delizia di battiti monotoni, vocals fluttuanti e sfumature cupe, con un neppure troppo velato retrogusto folk. L’iterazione ritmica è una delle chiavi di volta di No way, la quale, però, lavora soprattutto su droni e delicati fraseggi di synth per imbastire una nenia celestiale. Una bruma spettrale avvolge anche So far dear America, lenta e solenne, mentre Entre-temps ammalia con una danza persino sensuale, infittita da un nugolo di sei corde tremolanti. Non mancano i passaggi più sporchi: la coda di Interval 2, ad esempio, o Martians, che gioca con pulsazioni new-wave e durezze techno, sospinte da un organo visionario.
Le Lilies on Mars, insomma, si districano tra minimalismi, fuggevolezze ambientali e spasmi d’avanguardia rock-elettronica per cesellare tredici quadretti ricchi di fascino, soprattutto contraddistinti da un tratto personale, articolato in maniera funzionale alle esigenze espressive, dunque non aridamente virtuosistico. Bel passo avanti per un act da seguire, a questo punto, con la massima attenzione.Piccoli fenomeni (italiani) crescono. Che poi, le parentesi qui si possono tranquillamente omettere, perché leLilies on Mars non suonano come le solite cose nostrane. Il che, vista l’ambizione dichiaratamente cosmopolita ed internazionalista del progetto, ostentata sin sin dal debutto (l’omonimo LP del 2008), non può che essere un bene. Messo da parte ogni residuo provincialismo, Dot to dot vola alto. Fa sua la lezione diCocteau Twins, dei songwriter più visionari (Syd Barrett) e degli shoegazer stile Slowdive per imbastire un flusso celestial-ambientale di riverberi, droni, melodiee eteree, visioni oniriche, con testi pregni di “sentimento oceanico”. Rispetto ai predecessori (il succitato debut e Wish you were a pony), le trame sono più eteree, soporifere: meno elettricità, più elettronica. Soprattutto, Lisa Masia e Marina Cristofalo garantiscono una maggiore omogeneità e coesione del loro ordito sonoro: sono praticamente nulli gli sbandamenti, i punti deboli o le incertezze nelle tredici tracce.
Dot to dot, insomma, è un lavoro adulto. Autonomo al punto tale che il featuring di Franco Battiato in Oceanic landscape rischia di risultare quello sì un po’ ridondante. Ma è un eccesso di zelo perdonabile: come fai a dire di no a Battiato, soprattutto se è il tuo mentore e una delle tue influenze dichiarate (sul primo LP le due avevano coverizzato No u turn)? Il tono misticheggiante la fa da padrone in tutto il disco, ma senza pedanterie o forzature: Dram of bees è una delizia di battiti monotoni, vocals fluttuanti e sfumature cupe, con un neppure troppo velato retrogusto folk. L’iterazione ritmica è una delle chiavi di volta di No way, la quale, però, lavora soprattutto su droni e delicati fraseggi di synth per imbastire una nenia celestiale. Una bruma spettrale avvolge anche So far dear America, lenta e solenne, mentre Entre-temps ammalia con una danza persino sensuale, infittita da un nugolo di sei corde tremolanti. Non mancano i passaggi più sporchi: la coda di Interval 2, ad esempio, o Martians, che gioca con pulsazioni new-wave e durezze techno, sospinte da un organo visionario.
Le Lilies on Mars, insomma, si districano tra minimalismi, fuggevolezze ambientali e spasmi d’avanguardia rock-elettronica per cesellare tredici quadretti ricchi di fascino, soprattutto contraddistinti da un tratto personale, articolato in maniera funzionale alle esigenze espressive, dunque non aridamente virtuosistico. Bel passo avanti per un act da seguire, a questo punto, con la massima attenzione.
“La tua voce come il coro delle sirene di Ulisse m’incatena”. Per parlare delle Lilies on Mars e del loro nuovo lavoroDot to dot è quasi d’obbligo iniziare citando un verso diFranco Battiato, per tre motivi. Uno: con il maestro siciliano le conterranee Lilies On Mars hanno collaborato aprendo anche alcuni suoi concerti, Due: Battiato restituisce il favore duettando con loro nel singolo, “Oceanic Landscape”, aggiungendo la sua mistica e profonda voce a un pezzo che gli somiglia moltissimo, ma che le due Lilies On Mars rendono ancor più onirico e rarefatto. Tre: le ragazze siciliane sono due Sirene, per l’uso della voce che incatena per psichedelica e intensa dolcezza, splendidamente freddata da effetti elettronici e sintetici di grande raffinatezza.
Rispedito a New York Matthew Parker e la sua influenza cantautorale Usa, il duo al femminile rivendica tutta la sua forza ammaliatrice e sfodera un potente dream pop dal sintetizzatore facile, con altezze shoegaze che richiamano gli Slowdive. Non c’è malinconia, troppa è la perfezione. C’è un viaggio onirico, c’è la droga delle Sirene, la voglia di sbattere sugli scogli pur di ascoltare. È un disco quasi malvagio nel suo intimo e disarmante splendore: il perfetto specchio d’acqua in cui annegare. Lisa Masia e Marina Cristofaro, però, hanno molta perfezione greca ma poco di mediterraneo. Il loro sguardo punta a Nord, attraversa la Manica, guarda alle fredde terre d’Islanda, alla rarefatta Germania dei Lali Puna, all’Europa più algida e sperimentatrice che ha tra le sue colonne i Cocteau Twins e i Dead Can Dance. Solo la voce di Battiato in “Oceanic Landscape” riesce a riportare il caldo della Sicilia tra le altre nordiche tracce.
Splendide di pop peraltro, come in “No way”, tra i brani più immediatamente dreamy, in cui le due Sirene cantano e controcantano su un tappeto elettronico che ha il ritmo di un cavallo a dondolo. “So far dear America” è invece un volo sulle ali di un falco, tanto porta in alto: così lontana, cara America, non lo sei stata quasi mai, perchè qui si guarda perfino verso Oriente, e le sonorità si colorano all’improvviso, e sul finale, di un color ghiaccio decisamente vocalizzato alla Bjork. Il cambio di registro del pezzo innesca il grido più cupo delle Sirene, che tinge d’oscuro il dream-pop fin qui sognato, con le distorsioni elettroniche di “Interval 2″ ad annunciare un lieve cambio di tono con “Sugar is gone” che si fa più electro-dark in “For the first 3 years”, ipnotico pezzo in cui, ma ci se ne accorge dopo un po’, il cantato è in italiano.“Martians” è un viaggio nello psychospazio e chiude il dolce e malvagio album, che è un vero e proprio trip, di roba buona, e legale.“La tua voce come il coro delle sirene di Ulisse m’incatena”. Per parlare delle Lilies on Mars e del loro nuovo lavoroDot to dot è quasi d’obbligo iniziare citando un verso diFranco Battiato, per tre motivi. Uno: con il maestro siciliano le conterranee Lilies On Mars hanno collaborato aprendo anche alcuni suoi concerti, Due: Battiato restituisce il favore duettando con loro nel singolo, “Oceanic Landscape”, aggiungendo la sua mistica e profonda voce a un pezzo che gli somiglia moltissimo, ma che le due Lilies On Mars rendono ancor più onirico e rarefatto. Tre: le ragazze siciliane sono due Sirene, per l’uso della voce che incatena per psichedelica e intensa dolcezza, splendidamente freddata da effetti elettronici e sintetici di grande raffinatezza.
Rispedito a New York Matthew Parker e la sua influenza cantautorale Usa, il duo al femminile rivendica tutta la sua forza ammaliatrice e sfodera un potente dream pop dal sintetizzatore facile, con altezze shoegaze che richiamano gli Slowdive. Non c’è malinconia, troppa è la perfezione. C’è un viaggio onirico, c’è la droga delle Sirene, la voglia di sbattere sugli scogli pur di ascoltare. È un disco quasi malvagio nel suo intimo e disarmante splendore: il perfetto specchio d’acqua in cui annegare. Lisa Masia e Marina Cristofaro, però, hanno molta perfezione greca ma poco di mediterraneo. Il loro sguardo punta a Nord, attraversa la Manica, guarda alle fredde terre d’Islanda, alla rarefatta Germania dei Lali Puna, all’Europa più algida e sperimentatrice che ha tra le sue colonne i Cocteau Twins e i Dead Can Dance. Solo la voce di Battiato in “Oceanic Landscape” riesce a riportare il caldo della Sicilia tra le altre nordiche tracce.
Splendide di pop peraltro, come in “No way”, tra i brani più immediatamente dreamy, in cui le due Sirene cantano e controcantano su un tappeto elettronico che ha il ritmo di un cavallo a dondolo. “So far dear America” è invece un volo sulle ali di un falco, tanto porta in alto: così lontana, cara America, non lo sei stata quasi mai, perchè qui si guarda perfino verso Oriente, e le sonorità si colorano all’improvviso, e sul finale, di un color ghiaccio decisamente vocalizzato alla Bjork. Il cambio di registro del pezzo innesca il grido più cupo delle Sirene, che tinge d’oscuro il dream-pop fin qui sognato, con le distorsioni elettroniche di “Interval 2″ ad annunciare un lieve cambio di tono con “Sugar is gone” che si fa più electro-dark in “For the first 3 years”, ipnotico pezzo in cui, ma ci se ne accorge dopo un po’, il cantato è in italiano.“Martians” è un viaggio nello psychospazio e chiude il dolce e malvagio album, che è un vero e proprio trip, di roba buona, e legale.