Tommaso Cappellato

Tommaso Cappellato è un batterista e compositore eclettico e creativo. Forte di un groove deciso, nutrito da 9 anni di residenza a New York, studi alla New School University e due anni come leader della house band alla prestigiosa Rainbow Room, arricchisce il suo linguaggio con viaggi in diverse parti del mondo tra cui Africa, Brasile, India, Australia e Giappone. Ha suonato con Don Byron, Michael Blake, George Cables, Aaron Goldberg, Steve Grossman, Debbie Harry, Jon Hendricks, The Jazz Passengers, Enrico Pieranunzi, Enrico Rava, Marc Ribot, Kurt Rosenwinkel. Tra i suoi ultimi progetti spiccano il trio “Blackground” con Don Byron e Fabrizio Puglisi, la “Tommaso Cappellato Orchestra” composta da 13 elementi arrangiata da Michele Corcella, e “Astral Travel” un tributo allo Spiritual Jazz e una dedica al pianista e compositore Harry Whitaker, uno dei suoi mentori piu’ significativi.Drummer and composer Tommaso Cappellato spent a decade in New York crafting his technique and style. He received a BFA in Jazz Performance at The New School University, and took part to several musical projects playing all styles if music. He extensively travelled the world (Africa, India, Brazil, Australia, Japan) to tour and collaborate with many influential artists, including Don Byron, Michael Blake, George Cables, Aaron Goldberg, Steve Grossman, Debbie Harry, Jon Hendricks, The Jazz Passengers, Enrico Pieranunzi, Enrico Rava, Marc Ribot, Kurt Rosenwinkel. Among his latest projects are “Blackground Trio” with Don Byron and Fabrizio Puglisi, his own 14-piece Orchestra arranged and conducted by Michele Corcella and “Astral Travel”, a tribute to Spiritual Jazz and a dedication to the memory of late pianist, composer and arranger Harry Whitaker.

www.ithinkmagazine.it – Refugio

Uno sguardo su LABOULE

 

1.Chi sei, da dove vieni e che musica proponi.

Sono Paolo, in arte Laboule, vengo da Sondrio (valtellina) propongo musica per chitarra acustica e voce.

 

2.Il panorama musicale italiano aveva bisogno di te?

Ovviamente no. Se sapessi perché sono qui ve lo direi. Giuro…

 

3.Se tu fossi una meta da raggiungere con il “navigatore musicale”, quali coordinate di artisti del passato o del presente dovremmo impostare, come strada da percorrere per arrivare al tuo sound?

Credo che bisognerebbe partire dalla musica popolare, quella modale più strumentale ed improvvisata, per poi passare attraverso al punk rock (inteso non solo come genere ma come attitudine), passando vicino alla musica cretese ed ai chitarristi della Takoma quali John Fahey, Robbie Basho, Sandy Bull.

 

4.Il brano del tuo repertorio che preferisci e perché questa scelta. 

 

 

Tecnocuna. Non è finita sul disco ma funziona molto dal vivo. Potete ascoltarla qui: https://soundcloud.com/#laboule-1

 

5.Il disco che ti ha cambiato la vita.

jjj dei Milaus. Perché mi ha portato fuori dai binari.

 

6.Il tuo live più bello e quello invece peggio organizzato.

Il live più bello è stato in Francia, in una brasserie. Ero di spalla a Musica Da Cucina: venivamo da 3 date tedesche e quando riesci ad infilarne diverse in fila verso la terza sei veramente caldo e a tuo agio al punto giusto; inoltre stare lontano da casa ti fa sentire molto libero ed il pubblico ti accoglie con una sana curiosità.

Il peggiore direi senza dubbio nella metropolitana di Milano, per un “famoso” festival: ogni volta che passava il treno si azzerava qualsiasi emissione sonora. L’apoteosi dell’assurdo è stato sentire l’altoparlante annunciare a tutto volume, a metà di un brano, i live in metropolitana.

 

7.Il locale di musica dal vivo secondo te ancora troppo sottovalutato e, al contrario, quello eccessivamente valutato tra quelli dove hai suonato o ascoltato concerti di altri.

I locali più sottovalutati credo che siano le case e tutti quegli spazi che abitualmente non ospitano concerti.

Quelli sopravvalutati sono quelli che hanno un nome di prestigio e una pessima programmazione.

 

 

8.Le tre migliori band emergenti della tua regione.

Fuseaux: http://www.rockit.it/fuseauxtalia

Puciaro: https://soundcloud.com/puciaro

Musica Da Cucina:http://www.musicadacucina.it/

 

9.Come seguirti, contattarti, scambiare pareri con te.

www.longsongrecords.comwww.laboule.ithttps://www.facebook.com/pages/LABOULE/175752562444628

 

10.La decima domanda, che mancava: “Fatti una domanda e datti una risposta”.

D: Ne vale veramente la pena?

R: È necessario.Uno sguardo su LABOULE

 

1.Chi sei, da dove vieni e che musica proponi.

Sono Paolo, in arte Laboule, vengo da Sondrio (valtellina) propongo musica per chitarra acustica e voce.

 

2.Il panorama musicale italiano aveva bisogno di te?

Ovviamente no. Se sapessi perché sono qui ve lo direi. Giuro…

 

3.Se tu fossi una meta da raggiungere con il “navigatore musicale”, quali coordinate di artisti del passato o del presente dovremmo impostare, come strada da percorrere per arrivare al tuo sound?

Credo che bisognerebbe partire dalla musica popolare, quella modale più strumentale ed improvvisata, per poi passare attraverso al punk rock (inteso non solo come genere ma come attitudine), passando vicino alla musica cretese ed ai chitarristi della Takoma quali John Fahey, Robbie Basho, Sandy Bull.

 

4.Il brano del tuo repertorio che preferisci e perché questa scelta. 

 

 

Tecnocuna. Non è finita sul disco ma funziona molto dal vivo. Potete ascoltarla qui: https://soundcloud.com/#laboule-1

 

5.Il disco che ti ha cambiato la vita.

jjj dei Milaus. Perché mi ha portato fuori dai binari.

 

6.Il tuo live più bello e quello invece peggio organizzato.

Il live più bello è stato in Francia, in una brasserie. Ero di spalla a Musica Da Cucina: venivamo da 3 date tedesche e quando riesci ad infilarne diverse in fila verso la terza sei veramente caldo e a tuo agio al punto giusto; inoltre stare lontano da casa ti fa sentire molto libero ed il pubblico ti accoglie con una sana curiosità.

Il peggiore direi senza dubbio nella metropolitana di Milano, per un “famoso” festival: ogni volta che passava il treno si azzerava qualsiasi emissione sonora. L’apoteosi dell’assurdo è stato sentire l’altoparlante annunciare a tutto volume, a metà di un brano, i live in metropolitana.

 

7.Il locale di musica dal vivo secondo te ancora troppo sottovalutato e, al contrario, quello eccessivamente valutato tra quelli dove hai suonato o ascoltato concerti di altri.

I locali più sottovalutati credo che siano le case e tutti quegli spazi che abitualmente non ospitano concerti.

Quelli sopravvalutati sono quelli che hanno un nome di prestigio e una pessima programmazione.

 

 

8.Le tre migliori band emergenti della tua regione.

Fuseaux: http://www.rockit.it/fuseauxtalia

Puciaro: https://soundcloud.com/puciaro

Musica Da Cucina:http://www.musicadacucina.it/

 

9.Come seguirti, contattarti, scambiare pareri con te.

www.longsongrecords.comwww.laboule.ithttps://www.facebook.com/pages/LABOULE/175752562444628

 

10.La decima domanda, che mancava: “Fatti una domanda e datti una risposta”.

D: Ne vale veramente la pena?

R: È necessario.

bodyspace.net – Refugio

Uma guitarra nos Alpes.

Primeiro as apresentações. LABOULE é o projecto de Paolo Novellino, nascido em Milão em 1984 e crescido em Valtellina, entre abundante natureza. Depois de várias experiências em bandas, o músico vestiu a pele de Laboule depois de ouvir “Rocky Mountain raga”, de Robbie Basho. E isso faz todo o sentido quando ouvimos Refugio.

Refugio, gravado algures nos Alpes, é um disco de guitarra. Pode ter outros instrumentos (clarinete, tuba ou cães) mas é essencialmente um disco de guitarra. E um disco onde se prova a polivalência da interpretação de Paolo Novellino: no centro está o fingerpicking norte-americano, à volta está tudo o resto. E o resto são paisagens.

Refugio é um disco de paisagens. De canções que são paisagens, de melodias que são paisagens e de paisagens que são paisagens. E é um disco de uma beleza fundamental. Uma canção como “Gogol” diz tudo aquilo que é preciso ser dito acerca de um disco como Refugio: diz que um disco de guitarra ainda pode ser assim emocional e ao mesmo tempo complexo.

Uma guitarra nos Alpes.

Primeiro as apresentações. LABOULE é o projecto de Paolo Novellino, nascido em Milão em 1984 e crescido em Valtellina, entre abundante natureza. Depois de várias experiências em bandas, o músico vestiu a pele de Laboule depois de ouvir “Rocky Mountain raga”, de Robbie Basho. E isso faz todo o sentido quando ouvimos Refugio.

Refugio, gravado algures nos Alpes, é um disco de guitarra. Pode ter outros instrumentos (clarinete, tuba ou cães) mas é essencialmente um disco de guitarra. E um disco onde se prova a polivalência da interpretação de Paolo Novellino: no centro está o fingerpicking norte-americano, à volta está tudo o resto. E o resto são paisagens.

Refugio é um disco de paisagens. De canções que são paisagens, de melodias que são paisagens e de paisagens que são paisagens. E é um disco de uma beleza fundamental. Uma canção como “Gogol” diz tudo aquilo que é preciso ser dito acerca de um disco como Refugio: diz que um disco de guitarra ainda pode ser assim emocional e ao mesmo tempo complexo.

freejazzblog.org – Haptikon

On Haptikon, Elliott Sharp moves into the more mainstream world of jazz fusion, with obvious influences from rock and Indian music. Sharp has a tendency on other albums to present too self-indulgent music, as with many fusion guitarists and tenor opera singers, yet that’s less the case here. Assisted by programmed music on computer, with recognisable bass and drums, the guitarists plays layers of electric guitar in loops and manipulated sound, and the end result is really compelling, hopefully also to non-jazz fans. David Torn comes to mind at times, and that’s a good reference, and on “Phosphenes” the most bluesy of the tracks, Hendrix comes to mind, and that’s not a bad reference either, on “Pireps“, his high bended and sustained notes are reminiscent of David Gilmour, and that’s equally not a bad reference. Sharp avoids high speed solos and the kind of look-what-I-can pyrotechnics, rather focusing on creating great compositions and sound experiences, and at times incredibly strong dramatic effects. The joy of electric guitar.On Haptikon, Elliott Sharp moves into the more mainstream world of jazz fusion, with obvious influences from rock and Indian music. Sharp has a tendency on other albums to present too self-indulgent music, as with many fusion guitarists and tenor opera singers, yet that’s less the case here. Assisted by programmed music on computer, with recognisable bass and drums, the guitarists plays layers of electric guitar in loops and manipulated sound, and the end result is really compelling, hopefully also to non-jazz fans. David Torn comes to mind at times, and that’s a good reference, and on “Phosphenes” the most bluesy of the tracks, Hendrix comes to mind, and that’s not a bad reference either, on “Pireps“, his high bended and sustained notes are reminiscent of David Gilmour, and that’s equally not a bad reference. Sharp avoids high speed solos and the kind of look-what-I-can pyrotechnics, rather focusing on creating great compositions and sound experiences, and at times incredibly strong dramatic effects. The joy of electric guitar.

freejazzblog.org – Two For Joyce

James Joyce (1882 – 1941) lived in Trieste for fifteen years from 1904, where he completed A Portrait of the Artist as a Young Man and wrote most of Ulysses. Two statues, various tours around the city, and annual conferences now celebrate this famous resident. In May 2012, Keith Tippet (piano) and Giovanni Maier (double bass) played at Teatro Miela as part of the city’s “Le Nuove Rotte del Jazz” (New Routes in Jazz) festival, in a performance they acknowledge was a homage to Joyce “who has been both an inspiration and a passion for us”.

The most obvious inspiration is Ulysses, and Joyce’s famous stream of consciousness technique, his literary allusions, and mimicking of different genres – such as romantic novelettes, newspaper headlines, and advertisements – rather than Finnegans Wake, a book no person I know has admitted to finishing. One can hear the parallels in Tippet’s eclectic mix of styles – jazz (traditional to free), classical and popular music – where apparently disparate ideas from high and low culture flow into each other through free associations. The continuous performance of some 50 minutes – spontaneous and virtuosic – allows the duo to explore these to their full affect.

They open with undulating waves on the piano over Maier’s propulsive bass, and a run of notes picked out in the piano’s upper registers, until eventually brought to an end by a Rachmaninoff-like cadence from Tippet. After a passage of arco bass accompanied by soft chords, Tippet plays a folk-like melody reminiscent of Janáček’s piano music, but it’s true identity only becomes clear in Maier’s subsequent solo – Charles Mingus’Goodbye Pork Pie Hat. The theme is taken up by both and concludes as a lullaby.

After some bowed harmonics and plucked piano strings, Tippet introduces a new passage with a staccato motif that sounds like something from one of Bartok’s piano concertos, accompanied by Maier’s skittish bass. The music builds powerfully, with jazz inflections and accelerates into a haze of tremolandos, before the motif returns. This then morphs into a repeated rhythm in the left hand with irregular accents in the right: an allusion to theAugers of Spring section from Stravinsky’s The Rite of Spring.

Tippet’s use of the prepared piano is not the multitude of incongruous sounds pioneered by John Cage – with various objects set in the strings – but a more selective treatment, placed and removed at will, which allows him to play standard and prepared portions of the keyboard at the same time. This produces a counterpoint of normal piano timbre and exotic textures, with music to match.  After the last passage mentioned above, a gently rocking folk melody emerges, with the treated upper register resembling a cimbalon, and a delicate pizzicato on the bass which transforms the tune back into Mingus. Later, washes of sound at the piano’s lower end alternate with a gamelan-like theme in the buzzing upper octaves, until the cascades envelop everything and are joined by the sound of a harpsichord in perpetuum mobile. There are surprises and delights at every turn, and thoughts of Mingus don’t stop at quotation: Maier’s bass lines have that same solid, beefy quality.

In Ulysses there are tributes to maudlin popular songs, and at the same time a lampooning of the lyrics as overly sentimental. One doesn’t sense quite that edge here but as with Joyce, under the playfulness there’s a serious point being made. This performance is not a game of “Name the Composer” for music geeks (though I may have given that impression) but a genuinely inventive celebration of musical diversity which shows that the demarcation of genres is really not that rigid, and that the spaces between can prove just as interesting.James Joyce (1882 – 1941) lived in Trieste for fifteen years from 1904, where he completed A Portrait of the Artist as a Young Man and wrote most of Ulysses. Two statues, various tours around the city, and annual conferences now celebrate this famous resident. In May 2012, Keith Tippet (piano) and Giovanni Maier (double bass) played at Teatro Miela as part of the city’s “Le Nuove Rotte del Jazz” (New Routes in Jazz) festival, in a performance they acknowledge was a homage to Joyce “who has been both an inspiration and a passion for us”.

The most obvious inspiration is Ulysses, and Joyce’s famous stream of consciousness technique, his literary allusions, and mimicking of different genres – such as romantic novelettes, newspaper headlines, and advertisements – rather than Finnegans Wake, a book no person I know has admitted to finishing. One can hear the parallels in Tippet’s eclectic mix of styles – jazz (traditional to free), classical and popular music – where apparently disparate ideas from high and low culture flow into each other through free associations. The continuous performance of some 50 minutes – spontaneous and virtuosic – allows the duo to explore these to their full affect.

They open with undulating waves on the piano over Maier’s propulsive bass, and a run of notes picked out in the piano’s upper registers, until eventually brought to an end by a Rachmaninoff-like cadence from Tippet. After a passage of arco bass accompanied by soft chords, Tippet plays a folk-like melody reminiscent of Janáček’s piano music, but it’s true identity only becomes clear in Maier’s subsequent solo – Charles Mingus’Goodbye Pork Pie Hat. The theme is taken up by both and concludes as a lullaby.

After some bowed harmonics and plucked piano strings, Tippet introduces a new passage with a staccato motif that sounds like something from one of Bartok’s piano concertos, accompanied by Maier’s skittish bass. The music builds powerfully, with jazz inflections and accelerates into a haze of tremolandos, before the motif returns. This then morphs into a repeated rhythm in the left hand with irregular accents in the right: an allusion to theAugers of Spring section from Stravinsky’s The Rite of Spring.

Tippet’s use of the prepared piano is not the multitude of incongruous sounds pioneered by John Cage – with various objects set in the strings – but a more selective treatment, placed and removed at will, which allows him to play standard and prepared portions of the keyboard at the same time. This produces a counterpoint of normal piano timbre and exotic textures, with music to match.  After the last passage mentioned above, a gently rocking folk melody emerges, with the treated upper register resembling a cimbalon, and a delicate pizzicato on the bass which transforms the tune back into Mingus. Later, washes of sound at the piano’s lower end alternate with a gamelan-like theme in the buzzing upper octaves, until the cascades envelop everything and are joined by the sound of a harpsichord in perpetuum mobile. There are surprises and delights at every turn, and thoughts of Mingus don’t stop at quotation: Maier’s bass lines have that same solid, beefy quality.

In Ulysses there are tributes to maudlin popular songs, and at the same time a lampooning of the lyrics as overly sentimental. One doesn’t sense quite that edge here but as with Joyce, under the playfulness there’s a serious point being made. This performance is not a game of “Name the Composer” for music geeks (though I may have given that impression) but a genuinely inventive celebration of musical diversity which shows that the demarcation of genres is really not that rigid, and that the spaces between can prove just as interesting.

Buscadero – Refugio

Registrato in un rifugio alpino, con in copertina l’immagine di un mare che i toni freddi della foto fanno pensare invernale e con uno dei pezzi migliori delI’album, Simunin, ambientato nell’outback desert, Refugio potrebbe apparire come musica dello spaesamento. Di sicuro per LABOULE, pseudonimo del chitarrista e cantante Paolo Novellino, la natura e un luogo capace di farsi alternativamente specchio e ricovero per i tormenti dell’essere umano, di trasformarsi da minaccia misteriosa quale da molti è vista, in rifugio, appunto, in cui ritrovare la propria essenza. E’ un disco intimo e fatto di poco questo: le impressionisti che ed evocative trame chitarristiche in cui esplorare la magia delle accordature aperte, una voce che neppure è sempre necessaria per raccontare una storia (cinque tracce su undici sono strumentali), |’intervento misurato di qualche amico atto ad aggiungere qualche colore (la tuba di Glauco Benedetti, il clarinetto e gli utensili di Fabio “Musica da Cucina” Bonelli, le chitarre di Luca Novellino e Fabrizio Perissinotto, la seconda voce di Roberta Visioli nel blues psichedelico, Mojo N°22), ma e proprio in questa raccolta e calda intimità che sta la forza di un album come questo. E’ un disco che appartiene al mondo, quanto al suo autore questo: qui e là qualche rumore di sottofondo s’aggiunge alla musica; un cane. lontano, abbaia la sua malinconia. E cosi, l’eco di un paesaggio che s’immagina vasto quel tanto che basta a farci sentire piccoli – e più ci sentiamo piccoli, meno grossi sono i nostri affanni – diventa il protagonista di un disco in cui cercare asilo, accoccolandocisi dentro. Sia esso folk, blues, improvvisazione o canzone d’autore, senz’altro un bel posto in cui stare.Registrato in un rifugio alpino, con in copertina l’immagine di un mare che i toni freddi della foto fanno pensare invernale e con uno dei pezzi migliori delI’album, Simunin, ambientato nell’outback desert, Refugio potrebbe apparire come musica dello spaesamento. Di sicuro per LABOULE, pseudonimo del chitarrista e cantante Paolo Novellino, la natura e un luogo capace di farsi alternativamente specchio e ricovero per i tormenti dell’essere umano, di trasformarsi da minaccia misteriosa quale da molti è vista, in rifugio, appunto, in cui ritrovare la propria essenza. E’ un disco intimo e fatto di poco questo: le impressionisti che ed evocative trame chitarristiche in cui esplorare la magia delle accordature aperte, una voce che neppure è sempre necessaria per raccontare una storia (cinque tracce su undici sono strumentali), |’intervento misurato di qualche amico atto ad aggiungere qualche colore (la tuba di Glauco Benedetti, il clarinetto e gli utensili di Fabio “Musica da Cucina” Bonelli, le chitarre di Luca Novellino e Fabrizio Perissinotto, la seconda voce di Roberta Visioli nel blues psichedelico, Mojo N°22), ma e proprio in questa raccolta e calda intimità che sta la forza di un album come questo. E’ un disco che appartiene al mondo, quanto al suo autore questo: qui e là qualche rumore di sottofondo s’aggiunge alla musica; un cane. lontano, abbaia la sua malinconia. E cosi, l’eco di un paesaggio che s’immagina vasto quel tanto che basta a farci sentire piccoli – e più ci sentiamo piccoli, meno grossi sono i nostri affanni – diventa il protagonista di un disco in cui cercare asilo, accoccolandocisi dentro. Sia esso folk, blues, improvvisazione o canzone d’autore, senz’altro un bel posto in cui stare.

stillagoodthing.com – Refugio

Ci sono dischi lenti, lentissimi. Dischi così rarefatti che sembrano non finire mai, e la loro bellezza è che davvero non vorremmo vederne la fine.
Refugio è uno di questi dischi: quaranta minuti di chitarra pizzicata piano, di rumori sommessi e cani che abbaiano in lontananza, fruscii quasi impercettibili, di quelli che ti accorgi che ci sono solamente quando finiscono. Registrate in una baita sulle montagne valtellinesi con una chitarra, la mano di Lorenzo Monti e poco altro, le canzoni di LABOULE (al secolo Paolo Novellino) sono costruite sopra accordature aperte nell’ottica di una concezione modale della musica. Il che, tolti i paroloni da teoria & solfeggio, vuol dire brani che si avvitano su sé stessi e crescono con una lentezza dolce e inesorabile.
Un disco così bello che incornicerebbe perfettamente tanto una torrida notte agostana quanto una gelida e cristallina giornata invernale.Ci sono dischi lenti, lentissimi. Dischi così rarefatti che sembrano non finire mai, e la loro bellezza è che davvero non vorremmo vederne la fine.
Refugio è uno di questi dischi: quaranta minuti di chitarra pizzicata piano, di rumori sommessi e cani che abbaiano in lontananza, fruscii quasi impercettibili, di quelli che ti accorgi che ci sono solamente quando finiscono. Registrate in una baita sulle montagne valtellinesi con una chitarra, la mano di Lorenzo Monti e poco altro, le canzoni di LABOULE (al secolo Paolo Novellino) sono costruite sopra accordature aperte nell’ottica di una concezione modale della musica. Il che, tolti i paroloni da teoria & solfeggio, vuol dire brani che si avvitano su sé stessi e crescono con una lentezza dolce e inesorabile.
Un disco così bello che incornicerebbe perfettamente tanto una torrida notte agostana quanto una gelida e cristallina giornata invernale.

stordisco.blogspot.it – Refugio

Non è che segua granchè la scena musicale e le sue mode, ma se pure radio deejay si mette a passare gente come Of Monsters And MenMumford And Sons e in qualche rara occasione pureEdward Sharpe And The Magnetic Zeros mi vien da pensare che il folk stia vivendo una seconda gioventù, svecchiato e non più relegato alle zone rurali degli States: me ne sono convinto definitivamente ascoltando alla radio di cui sopra una specie di ibrido folk-zarro, di cui ho dimenticato subito il nome (e non me ne sento così dispiaciuto). Beh di folk si parla anche qui, ma non c’entra un cazzo con quanto scritto finora.

 

Paolo Novellino, in arte Laboule, su radio deejay non passerà mai. Non è che voglio portargli sfiga, è che i suoi pezzi hanno lo stesso appeal radiofonico generalista del grind o del deathcore. E’ come se nella sua musica avesse frullato insieme la psichedelia blues malata del primo Samuel Katarro, la tradizione folk di nuove incarnazioni come il benemerito A.A. Bondy (senza i suoi suoni soffusamente bizzarri però) ed il gusto per atmosfere quasi da colonna sonora di un altro compatriota dedito alle sperimentazioni self-made sotto pseudonimo, l’Andrea Faccioli meglio noto come Cabeki. Il fatto che magari non abbiate sentito nominare nessuno dei tre elencati qui sopra depone a mio sfavore per quanto riguarda il riuscire a farvi capire quello che vi potreste trovare di fronte ascoltando questo Refugio, ma se avete del tempo da perdere fate che ascoltare qualcosa di tutti questi e (spero) mi ringrazierete.

Il gioco è semplice: dividere 11 pezzi fra ballate folk-blues semplici ma suggestive, meglio se coadiuvate da una leggiadra voce femminile o da doppie voci in falsetto (“Mojo N° 22”, “Gogol”), rarefatte composizioni strumentali in cui i silenzi sono tanto importanti quanto gli arpeggi (l’iniziale “Spore” è un esempio assolutamente calzante) e, perlopiù, pezzi dove i due elementi si mischiano fra di loro e con una buona dose di psichedelia. “Simunin” ad esempio, dove l’inizio sembra promettere un tranquillo viaggio a due voci accompagnato dagli arpeggi della chitarra acustica (unica, o quasi, protagonista in tutto il disco) salvo subire la contaminazione di rumorismi orientaleggianti che portano il trip su di un altro livello. E forse è fare un torto a questo album il voler scomporre i suoi brani dal risultato generale, perchè la parola trip usata poco fa è il termine migliore per definire questa esperienza musicale, lenta ed avvolgente nelle sue atmosfere riflessive che in qualche momento portano con sé vivide immagini di enormi spazi aperti come solo le migliori colonne sonore riescono a fare (“Gatash 432”, “Bouzuki E Balene” ed il suo coretto finale splendente come un raggio di sole): con buona pace dei momenti cantati sono proprio i punti in cui la chitarra porta su di sé tutto il peso della riuscita dei brani che si sentono le cose migliori.

Non so se sono riuscito a rendere l’idea di quanto valgano, a mio parere, le capacità artistiche del progetto Laboule, ma spero almeno che le parole spese in queste poche righe bastino a spingervi ad approfondire la conoscenza musicale di un artista che ha saputo emozionarmi a lunghi tratti.

Non è che segua granchè la scena musicale e le sue mode, ma se pure radio deejay si mette a passare gente come Of Monsters And MenMumford And Sons e in qualche rara occasione pureEdward Sharpe And The Magnetic Zeros mi vien da pensare che il folk stia vivendo una seconda gioventù, svecchiato e non più relegato alle zone rurali degli States: me ne sono convinto definitivamente ascoltando alla radio di cui sopra una specie di ibrido folk-zarro, di cui ho dimenticato subito il nome (e non me ne sento così dispiaciuto). Beh di folk si parla anche qui, ma non c’entra un cazzo con quanto scritto finora.

 

Paolo Novellino, in arte Laboule, su radio deejay non passerà mai. Non è che voglio portargli sfiga, è che i suoi pezzi hanno lo stesso appeal radiofonico generalista del grind o del deathcore. E’ come se nella sua musica avesse frullato insieme la psichedelia blues malata del primo Samuel Katarro, la tradizione folk di nuove incarnazioni come il benemerito A.A. Bondy (senza i suoi suoni soffusamente bizzarri però) ed il gusto per atmosfere quasi da colonna sonora di un altro compatriota dedito alle sperimentazioni self-made sotto pseudonimo, l’Andrea Faccioli meglio noto come Cabeki. Il fatto che magari non abbiate sentito nominare nessuno dei tre elencati qui sopra depone a mio sfavore per quanto riguarda il riuscire a farvi capire quello che vi potreste trovare di fronte ascoltando questo Refugio, ma se avete del tempo da perdere fate che ascoltare qualcosa di tutti questi e (spero) mi ringrazierete.

Il gioco è semplice: dividere 11 pezzi fra ballate folk-blues semplici ma suggestive, meglio se coadiuvate da una leggiadra voce femminile o da doppie voci in falsetto (“Mojo N° 22”, “Gogol”), rarefatte composizioni strumentali in cui i silenzi sono tanto importanti quanto gli arpeggi (l’iniziale “Spore” è un esempio assolutamente calzante) e, perlopiù, pezzi dove i due elementi si mischiano fra di loro e con una buona dose di psichedelia. “Simunin” ad esempio, dove l’inizio sembra promettere un tranquillo viaggio a due voci accompagnato dagli arpeggi della chitarra acustica (unica, o quasi, protagonista in tutto il disco) salvo subire la contaminazione di rumorismi orientaleggianti che portano il trip su di un altro livello. E forse è fare un torto a questo album il voler scomporre i suoi brani dal risultato generale, perchè la parola trip usata poco fa è il termine migliore per definire questa esperienza musicale, lenta ed avvolgente nelle sue atmosfere riflessive che in qualche momento portano con sé vivide immagini di enormi spazi aperti come solo le migliori colonne sonore riescono a fare (“Gatash 432”, “Bouzuki E Balene” ed il suo coretto finale splendente come un raggio di sole): con buona pace dei momenti cantati sono proprio i punti in cui la chitarra porta su di sé tutto il peso della riuscita dei brani che si sentono le cose migliori.

Non so se sono riuscito a rendere l’idea di quanto valgano, a mio parere, le capacità artistiche del progetto Laboule, ma spero almeno che le parole spese in queste poche righe bastino a spingervi ad approfondire la conoscenza musicale di un artista che ha saputo emozionarmi a lunghi tratti.

http://chitarraedintorni.blogspot.it – Refugio

E così sembra che ci siamo, l’ombra lunga del weird folk ha raggiunto anche le periferie italiche. Nel 2011 Gino Dal Soler scrisse il libro “The circle is unbroken” dove raccontava 40 anni di folk visionario e psichedelico e del coraggioso recupero che alcuni “manipoli” di appassionati stavano facendo in modo sporadico, anti economico e discontinuo cercando di allargarne nel frattempo le frontiere.
E se la maggior parte di essi appare e scompare nel mare magnum delle possibilità offerte da un mercato che ha ormai raggiunto dimensioni incontrollate, alcuni di essi sono arrivati nel corso di anni di lavoro tenace e paziente a consolidare una solida reputazione guadagnandosi il compito di proseguire sulla strada iniziata dai loro eroi.
Laboule è al suo primo disco ma la “carne” che mette qui sul fuoco è tanta, di ottima qualità e decisamente gustosa. I riferimenti sono quelli di Robbie Basho, visionario chitarrista che riuscì a fondere tra di loro con la sua chitarra acustica a 12 corde blues, musica indiana e pre war folk.
Accordature aperte, un approccio genuino e sincero, canzoni sussurrate, un senso di dilatazione dello spazio attorno alle sue note che affascina e ammalia .. il tempo lasciato sospeso tra le corde di una chitarra acustica.
Registrato in montagna, nella pace e solitudine del rifugio Menaggio questo disco cattura le dimensioni e gli spazi delle valli della Valtellina, Laboule ovvero Paolo Novellino, milanese di nascita, artista di adozione, dimostra una maturità artistica impressionante. Sì, i riferimenti sono Basho, Fahey e la primitive guitar ma Novellino metabolizza e rielabora questo glorioso passato rifiutando di lasciarsi imprigionare e allunga il suo sguardo nelle valli e oltre Milano.
Consigliatissimo

(English) Gongfarmer 36

Jim McAuley’s second solo release, Gongfarmer 36 is a followup to 2005’s Gongfarmer 18, which introduced the LA guitarist’s avant-acoustica to a wider audience.
A mixture of inner- and outer-spaces, McAuley’s musical cosmology is both sparse and expansive, constrained and amoebic, a sound grounded in bareboned Mississippi Delta slide blues, often hunkering on a single-note drone, yet at the same time embracing an ethic of never-repeat-anything-you-did-before…ever. The results are not easy to describe, but the artistry is palpable. Tracks like “Second Blooming” and “Una Lunga Canzone” evince an affinity for flamenco techniques like rasqueado (finger strums), tremolo and golpas (rapping) whereas “Nika’s Waltz” sounds a bit like the opening of a raga performed on sarod (Indian fretless lute). There are many ‘blue notes’: the microtonal clusters over Travis-picked bass notes on “Blues for John Carter”; the swooping Hawaiian steel slides on “The Eyelids of Buddha” and the diddley- bow triplets of “Saltarello/Jumpstart”. On “Another November Night” McAuley’s unorthodox orchestration mimics a koto while the shuffling and scratching of “Joy Buzzer” are more ambiguous. But these are only approximations of what you might hear for yourself