Buscadero – Refugio

Registrato in un rifugio alpino, con in copertina l’immagine di un mare che i toni freddi della foto fanno pensare invernale e con uno dei pezzi migliori delI’album, Simunin, ambientato nell’outback desert, Refugio potrebbe apparire come musica dello spaesamento. Di sicuro per LABOULE, pseudonimo del chitarrista e cantante Paolo Novellino, la natura e un luogo capace di farsi alternativamente specchio e ricovero per i tormenti dell’essere umano, di trasformarsi da minaccia misteriosa quale da molti è vista, in rifugio, appunto, in cui ritrovare la propria essenza. E’ un disco intimo e fatto di poco questo: le impressionisti che ed evocative trame chitarristiche in cui esplorare la magia delle accordature aperte, una voce che neppure è sempre necessaria per raccontare una storia (cinque tracce su undici sono strumentali), |’intervento misurato di qualche amico atto ad aggiungere qualche colore (la tuba di Glauco Benedetti, il clarinetto e gli utensili di Fabio “Musica da Cucina” Bonelli, le chitarre di Luca Novellino e Fabrizio Perissinotto, la seconda voce di Roberta Visioli nel blues psichedelico, Mojo N°22), ma e proprio in questa raccolta e calda intimità che sta la forza di un album come questo. E’ un disco che appartiene al mondo, quanto al suo autore questo: qui e là qualche rumore di sottofondo s’aggiunge alla musica; un cane. lontano, abbaia la sua malinconia. E cosi, l’eco di un paesaggio che s’immagina vasto quel tanto che basta a farci sentire piccoli – e più ci sentiamo piccoli, meno grossi sono i nostri affanni – diventa il protagonista di un disco in cui cercare asilo, accoccolandocisi dentro. Sia esso folk, blues, improvvisazione o canzone d’autore, senz’altro un bel posto in cui stare.Registrato in un rifugio alpino, con in copertina l’immagine di un mare che i toni freddi della foto fanno pensare invernale e con uno dei pezzi migliori delI’album, Simunin, ambientato nell’outback desert, Refugio potrebbe apparire come musica dello spaesamento. Di sicuro per LABOULE, pseudonimo del chitarrista e cantante Paolo Novellino, la natura e un luogo capace di farsi alternativamente specchio e ricovero per i tormenti dell’essere umano, di trasformarsi da minaccia misteriosa quale da molti è vista, in rifugio, appunto, in cui ritrovare la propria essenza. E’ un disco intimo e fatto di poco questo: le impressionisti che ed evocative trame chitarristiche in cui esplorare la magia delle accordature aperte, una voce che neppure è sempre necessaria per raccontare una storia (cinque tracce su undici sono strumentali), |’intervento misurato di qualche amico atto ad aggiungere qualche colore (la tuba di Glauco Benedetti, il clarinetto e gli utensili di Fabio “Musica da Cucina” Bonelli, le chitarre di Luca Novellino e Fabrizio Perissinotto, la seconda voce di Roberta Visioli nel blues psichedelico, Mojo N°22), ma e proprio in questa raccolta e calda intimità che sta la forza di un album come questo. E’ un disco che appartiene al mondo, quanto al suo autore questo: qui e là qualche rumore di sottofondo s’aggiunge alla musica; un cane. lontano, abbaia la sua malinconia. E cosi, l’eco di un paesaggio che s’immagina vasto quel tanto che basta a farci sentire piccoli – e più ci sentiamo piccoli, meno grossi sono i nostri affanni – diventa il protagonista di un disco in cui cercare asilo, accoccolandocisi dentro. Sia esso folk, blues, improvvisazione o canzone d’autore, senz’altro un bel posto in cui stare.

stillagoodthing.com – Refugio

Ci sono dischi lenti, lentissimi. Dischi così rarefatti che sembrano non finire mai, e la loro bellezza è che davvero non vorremmo vederne la fine.
Refugio è uno di questi dischi: quaranta minuti di chitarra pizzicata piano, di rumori sommessi e cani che abbaiano in lontananza, fruscii quasi impercettibili, di quelli che ti accorgi che ci sono solamente quando finiscono. Registrate in una baita sulle montagne valtellinesi con una chitarra, la mano di Lorenzo Monti e poco altro, le canzoni di LABOULE (al secolo Paolo Novellino) sono costruite sopra accordature aperte nell’ottica di una concezione modale della musica. Il che, tolti i paroloni da teoria & solfeggio, vuol dire brani che si avvitano su sé stessi e crescono con una lentezza dolce e inesorabile.
Un disco così bello che incornicerebbe perfettamente tanto una torrida notte agostana quanto una gelida e cristallina giornata invernale.Ci sono dischi lenti, lentissimi. Dischi così rarefatti che sembrano non finire mai, e la loro bellezza è che davvero non vorremmo vederne la fine.
Refugio è uno di questi dischi: quaranta minuti di chitarra pizzicata piano, di rumori sommessi e cani che abbaiano in lontananza, fruscii quasi impercettibili, di quelli che ti accorgi che ci sono solamente quando finiscono. Registrate in una baita sulle montagne valtellinesi con una chitarra, la mano di Lorenzo Monti e poco altro, le canzoni di LABOULE (al secolo Paolo Novellino) sono costruite sopra accordature aperte nell’ottica di una concezione modale della musica. Il che, tolti i paroloni da teoria & solfeggio, vuol dire brani che si avvitano su sé stessi e crescono con una lentezza dolce e inesorabile.
Un disco così bello che incornicerebbe perfettamente tanto una torrida notte agostana quanto una gelida e cristallina giornata invernale.

stordisco.blogspot.it – Refugio

Non è che segua granchè la scena musicale e le sue mode, ma se pure radio deejay si mette a passare gente come Of Monsters And MenMumford And Sons e in qualche rara occasione pureEdward Sharpe And The Magnetic Zeros mi vien da pensare che il folk stia vivendo una seconda gioventù, svecchiato e non più relegato alle zone rurali degli States: me ne sono convinto definitivamente ascoltando alla radio di cui sopra una specie di ibrido folk-zarro, di cui ho dimenticato subito il nome (e non me ne sento così dispiaciuto). Beh di folk si parla anche qui, ma non c’entra un cazzo con quanto scritto finora.

 

Paolo Novellino, in arte Laboule, su radio deejay non passerà mai. Non è che voglio portargli sfiga, è che i suoi pezzi hanno lo stesso appeal radiofonico generalista del grind o del deathcore. E’ come se nella sua musica avesse frullato insieme la psichedelia blues malata del primo Samuel Katarro, la tradizione folk di nuove incarnazioni come il benemerito A.A. Bondy (senza i suoi suoni soffusamente bizzarri però) ed il gusto per atmosfere quasi da colonna sonora di un altro compatriota dedito alle sperimentazioni self-made sotto pseudonimo, l’Andrea Faccioli meglio noto come Cabeki. Il fatto che magari non abbiate sentito nominare nessuno dei tre elencati qui sopra depone a mio sfavore per quanto riguarda il riuscire a farvi capire quello che vi potreste trovare di fronte ascoltando questo Refugio, ma se avete del tempo da perdere fate che ascoltare qualcosa di tutti questi e (spero) mi ringrazierete.

Il gioco è semplice: dividere 11 pezzi fra ballate folk-blues semplici ma suggestive, meglio se coadiuvate da una leggiadra voce femminile o da doppie voci in falsetto (“Mojo N° 22”, “Gogol”), rarefatte composizioni strumentali in cui i silenzi sono tanto importanti quanto gli arpeggi (l’iniziale “Spore” è un esempio assolutamente calzante) e, perlopiù, pezzi dove i due elementi si mischiano fra di loro e con una buona dose di psichedelia. “Simunin” ad esempio, dove l’inizio sembra promettere un tranquillo viaggio a due voci accompagnato dagli arpeggi della chitarra acustica (unica, o quasi, protagonista in tutto il disco) salvo subire la contaminazione di rumorismi orientaleggianti che portano il trip su di un altro livello. E forse è fare un torto a questo album il voler scomporre i suoi brani dal risultato generale, perchè la parola trip usata poco fa è il termine migliore per definire questa esperienza musicale, lenta ed avvolgente nelle sue atmosfere riflessive che in qualche momento portano con sé vivide immagini di enormi spazi aperti come solo le migliori colonne sonore riescono a fare (“Gatash 432”, “Bouzuki E Balene” ed il suo coretto finale splendente come un raggio di sole): con buona pace dei momenti cantati sono proprio i punti in cui la chitarra porta su di sé tutto il peso della riuscita dei brani che si sentono le cose migliori.

Non so se sono riuscito a rendere l’idea di quanto valgano, a mio parere, le capacità artistiche del progetto Laboule, ma spero almeno che le parole spese in queste poche righe bastino a spingervi ad approfondire la conoscenza musicale di un artista che ha saputo emozionarmi a lunghi tratti.

Non è che segua granchè la scena musicale e le sue mode, ma se pure radio deejay si mette a passare gente come Of Monsters And MenMumford And Sons e in qualche rara occasione pureEdward Sharpe And The Magnetic Zeros mi vien da pensare che il folk stia vivendo una seconda gioventù, svecchiato e non più relegato alle zone rurali degli States: me ne sono convinto definitivamente ascoltando alla radio di cui sopra una specie di ibrido folk-zarro, di cui ho dimenticato subito il nome (e non me ne sento così dispiaciuto). Beh di folk si parla anche qui, ma non c’entra un cazzo con quanto scritto finora.

 

Paolo Novellino, in arte Laboule, su radio deejay non passerà mai. Non è che voglio portargli sfiga, è che i suoi pezzi hanno lo stesso appeal radiofonico generalista del grind o del deathcore. E’ come se nella sua musica avesse frullato insieme la psichedelia blues malata del primo Samuel Katarro, la tradizione folk di nuove incarnazioni come il benemerito A.A. Bondy (senza i suoi suoni soffusamente bizzarri però) ed il gusto per atmosfere quasi da colonna sonora di un altro compatriota dedito alle sperimentazioni self-made sotto pseudonimo, l’Andrea Faccioli meglio noto come Cabeki. Il fatto che magari non abbiate sentito nominare nessuno dei tre elencati qui sopra depone a mio sfavore per quanto riguarda il riuscire a farvi capire quello che vi potreste trovare di fronte ascoltando questo Refugio, ma se avete del tempo da perdere fate che ascoltare qualcosa di tutti questi e (spero) mi ringrazierete.

Il gioco è semplice: dividere 11 pezzi fra ballate folk-blues semplici ma suggestive, meglio se coadiuvate da una leggiadra voce femminile o da doppie voci in falsetto (“Mojo N° 22”, “Gogol”), rarefatte composizioni strumentali in cui i silenzi sono tanto importanti quanto gli arpeggi (l’iniziale “Spore” è un esempio assolutamente calzante) e, perlopiù, pezzi dove i due elementi si mischiano fra di loro e con una buona dose di psichedelia. “Simunin” ad esempio, dove l’inizio sembra promettere un tranquillo viaggio a due voci accompagnato dagli arpeggi della chitarra acustica (unica, o quasi, protagonista in tutto il disco) salvo subire la contaminazione di rumorismi orientaleggianti che portano il trip su di un altro livello. E forse è fare un torto a questo album il voler scomporre i suoi brani dal risultato generale, perchè la parola trip usata poco fa è il termine migliore per definire questa esperienza musicale, lenta ed avvolgente nelle sue atmosfere riflessive che in qualche momento portano con sé vivide immagini di enormi spazi aperti come solo le migliori colonne sonore riescono a fare (“Gatash 432”, “Bouzuki E Balene” ed il suo coretto finale splendente come un raggio di sole): con buona pace dei momenti cantati sono proprio i punti in cui la chitarra porta su di sé tutto il peso della riuscita dei brani che si sentono le cose migliori.

Non so se sono riuscito a rendere l’idea di quanto valgano, a mio parere, le capacità artistiche del progetto Laboule, ma spero almeno che le parole spese in queste poche righe bastino a spingervi ad approfondire la conoscenza musicale di un artista che ha saputo emozionarmi a lunghi tratti.