chitarraedintorni.blogspot.com – Craig Green + David King

E’ da diverso tempo che sto notando un curioso e singolare avvicinamento tra due mondi tra loro all’apparenza inconciliabili: la musica “colta” di chiara estrazione accademica e contemporanea e la musica d’avanguardia che proviene dai circuiti free jazz, hardcore e dalla downtown newyorkese.
Non so bene come, se per una forma di comune reazione a quelli che sono gli stimoli che impone una società globalizzata e massificata, o perché diversi musicisti si trovano per necessità o per impulso creativo a svolgere sia un ruolo di interpreti che di compositori, o perché quell’impulso all’improvvisazione, quella cosa che Boulez ha chiamato Alea con la “A” maiuscola in un comico tentativo di distinguerla e “nobilitarla” rispetto all’improvvisazione con “i” minuscola che sempre vive e si rinnova nell’ambito della più plebea musica popolare, sta sempre conquistando più consensi nella musica contemporanea, ma di fatto ascolto sempre più cose che potrebbero essere facilmente attribuite contemporaneamente a entrambi i due versanti della musica d’avanguardia.
Questo disco realizzato nel 2008 per la italianissima Long Song Records dal chitarrista Craig Green e dal batterista/pianista David King sembra inserirsi perfettamente in quanto scritto poco fa: il loro ottimo disco è un viaggio nella musica sperimentale che sta a cavallo tra i generi, un interessante crossover dove la chitarra aggressiva di Green fronteggia la potente e poliritmica batteria di King in un dialogo serrato che viene integrato dalle massicce dosi di elettronica gestite da Green e dal piano suonato da King.
In questa arena c’è spazio per tutto, i brani riflettono una inquieta tensione improvvisatoria ma si sente chiaramente che sono sorretti da impalcature strutturali ben definite e rigorose nei quali i musicisti si muovono a loro agio con rapidi ed efficaci cambiamenti di umore e di clima.
Davvero un bel lavoro, onore alla Long Song Records che sta costruendosi un catalogo di tutto rispetto!E’ da diverso tempo che sto notando un curioso e singolare avvicinamento tra due mondi tra loro all’apparenza inconciliabili: la musica “colta” di chiara estrazione accademica e contemporanea e la musica d’avanguardia che proviene dai circuiti free jazz, hardcore e dalla downtown newyorkese.
Non so bene come, se per una forma di comune reazione a quelli che sono gli stimoli che impone una società globalizzata e massificata, o perché diversi musicisti si trovano per necessità o per impulso creativo a svolgere sia un ruolo di interpreti che di compositori, o perché quell’impulso all’improvvisazione, quella cosa che Boulez ha chiamato Alea con la “A” maiuscola in un comico tentativo di distinguerla e “nobilitarla” rispetto all’improvvisazione con “i” minuscola che sempre vive e si rinnova nell’ambito della più plebea musica popolare, sta sempre conquistando più consensi nella musica contemporanea, ma di fatto ascolto sempre più cose che potrebbero essere facilmente attribuite contemporaneamente a entrambi i due versanti della musica d’avanguardia.
Questo disco realizzato nel 2008 per la italianissima Long Song Records dal chitarrista Craig Green e dal batterista/pianista David King sembra inserirsi perfettamente in quanto scritto poco fa: il loro ottimo disco è un viaggio nella musica sperimentale che sta a cavallo tra i generi, un interessante crossover dove la chitarra aggressiva di Green fronteggia la potente e poliritmica batteria di King in un dialogo serrato che viene integrato dalle massicce dosi di elettronica gestite da Green e dal piano suonato da King.
In questa arena c’è spazio per tutto, i brani riflettono una inquieta tensione improvvisatoria ma si sente chiaramente che sono sorretti da impalcature strutturali ben definite e rigorose nei quali i musicisti si muovono a loro agio con rapidi ed efficaci cambiamenti di umore e di clima.
Davvero un bel lavoro, onore alla Long Song Records che sta costruendosi un catalogo di tutto rispetto!

chitarraedintorni.blogspot.com – Breaking News

Una bella sorpresa questo Breaking News del chitarrista milanese Simone Massaron. Uno si affanna, cerca sempre qualcosa di nuovo, tiene sotto controllo per mesi e anni le vari avanguardie mondiali per poi scoprire che nella sonnacchiosa pianura padana si possono scoprire queste gemme musicali sorprendenti! E’ un disco curioso, dal suono abrasivo e a volte contorto, originalmente e intelligentemente “dazed and confused” che ti avvince fin dal primo ascolto e che si stratifica in nuove impressioni nei successivi passaggi sul piatto del lettore cd.
I nomi coinvolti sono tutti di assoluto prestigio e fanno in fretta a confermarsi con tranquilla sicurezza degli impareggiabili compagni di gioco e di viaggio: al sax tenore l’ispirato e energico Daniele Cavallanti, alla batteria i poliritmi del versatile Tiziano Tononi, al basso Steve Piccolo, già membro dei Lounge Lizards e cantante dalla voce scura e torbida che mi ricorda il migliore Tom Waits e alle chitarre, oltre al leader Massaron, che firma tutte le composizioni con l’eccezione della fogertyiana “Run Through the Jungle”, un nome di spicco direttamente dalla migliore scena downtown newyorchese: il camaleontico Elliott Sharp.
Un disco che odora di blues, di marching band alla New Orleans, di avanguardia sorniona e ispirata, di free rovente e catartico con le sei corde e il sax a duellare tra loro in intrecci vorticosi dove il suono viene sottoposto a spinte centrifughe passando con disinvoltura tra momenti di pura astrazione, passaggi dal sapore desertico, suggestivi richiami al Delta e furiose impennate di rock senza compromessi.
Ecco, un disco davvero senza compromessi ma senza le pesantezze di una certa avanguardia troppo spesso autoreferenziale e mai slegato dal piacere di un ascolto che si trasforma spesso in un gioco alla scoperta di quel passaggio, di quella frase, di quel “link” sonoro che ti porta a sorridere, a battere il piede ma anche a riflettere, a gustare, ad assaporare lentamente.
Un disco insolito … mi far venir voglia di ascoltarne di più.

Un punto in più per la qualità dir registrazione e per la scelta di aver messo le chitarre di Massaron sul canale sinistro e quella di Sharp sul destro: sentirli fare il call and response così in cuffia è vera goduria.Una bella sorpresa questo Breaking News del chitarrista milanese Simone Massaron. Uno si affanna, cerca sempre qualcosa di nuovo, tiene sotto controllo per mesi e anni le vari avanguardie mondiali per poi scoprire che nella sonnacchiosa pianura padana si possono scoprire queste gemme musicali sorprendenti! E’ un disco curioso, dal suono abrasivo e a volte contorto, originalmente e intelligentemente “dazed and confused” che ti avvince fin dal primo ascolto e che si stratifica in nuove impressioni nei successivi passaggi sul piatto del lettore cd.
I nomi coinvolti sono tutti di assoluto prestigio e fanno in fretta a confermarsi con tranquilla sicurezza degli impareggiabili compagni di gioco e di viaggio: al sax tenore l’ispirato e energico Daniele Cavallanti, alla batteria i poliritmi del versatile Tiziano Tononi, al basso Steve Piccolo, già membro dei Lounge Lizards e cantante dalla voce scura e torbida che mi ricorda il migliore Tom Waits e alle chitarre, oltre al leader Massaron, che firma tutte le composizioni con l’eccezione della fogertyiana “Run Through the Jungle”, un nome di spicco direttamente dalla migliore scena downtown newyorchese: il camaleontico Elliott Sharp.
Un disco che odora di blues, di marching band alla New Orleans, di avanguardia sorniona e ispirata, di free rovente e catartico con le sei corde e il sax a duellare tra loro in intrecci vorticosi dove il suono viene sottoposto a spinte centrifughe passando con disinvoltura tra momenti di pura astrazione, passaggi dal sapore desertico, suggestivi richiami al Delta e furiose impennate di rock senza compromessi.
Ecco, un disco davvero senza compromessi ma senza le pesantezze di una certa avanguardia troppo spesso autoreferenziale e mai slegato dal piacere di un ascolto che si trasforma spesso in un gioco alla scoperta di quel passaggio, di quella frase, di quel “link” sonoro che ti porta a sorridere, a battere il piede ma anche a riflettere, a gustare, ad assaporare lentamente.
Un disco insolito … mi far venir voglia di ascoltarne di più.

Un punto in più per la qualità dir registrazione e per la scelta di aver messo le chitarre di Massaron sul canale sinistro e quella di Sharp sul destro: sentirli fare il call and response così in cuffia è vera goduria.

chitarraedintorni.blogspot.com – Vignes

Purtroppo questa registrazione resta l’ultima possibilità per ascoltare questi tre musicisti suonare / creare / giocare assieme: Rod Poole è stato assassinato nel 2007. Questo Vignes è la registrazione del concerto tenutosi a Los Angeles presso la Downtown Playhouse il 26 luglio del 2003 e il retro del cd cita orgogliosamente “This Music Is Improvised”. Tutti e tre i musicisti arrischiano avventurandosi in quel universo microtonale che il chitarrista britannico Rod Poole aveva esplorato ossessivamente, suonando su un strumento accordato in open tune e suonato con l’archetto di violino. Tutti e tre i musicisti non fanno parte di una tradizione musicale, avendo da tempo accantonato concetti come “genere musicale”. Beh sì, Cline è noto per la sua appartenenza ai Wilco, ma parlare di musica rock sarebbe un modo molto limitativo per descrivere il suo lavoro. McAuley ha un suono più folk, ma anche a lui questa categoria sta stretta. E Poole apparentemente viveva in un mondo tutto suo. “Vignes 1”, la prima lunga improvvisazione, comincia in modo calmo, in un modo piuttosto convenzionale, ma poi si trasforma in un pezzo ipnotico e strano, oscuro e luminoso dove struttura e ritmo vengono progressivamente abbandonate a favore dell’esplorazione nel suono puro, anche se non sempre riconoscibile, della chitarra. “Vignes 2” ritorna a una improvvisazione atonale, ma allo stesso tempo ritmica con sequenze incalzanti e ondivaghe. “Vignes 3” riporta l’Acustig Guitar trio su sentiri avventurosi, con Poole che suona l’arco sulle sue corde. Non suona come Jimmy Page, o Raoul Björkenheim, ma ha una qualità di suono stridente a volte quasi dolorosa, a volte bella che non lascia certamente indifferente.
Anche se questa musica non è certamente per tutti i gusti, le esplorazioni musicali del trio e le nuove prospettive offerte dalle loro chitarre acustiche meritano un ascolto circostanziato. Da italiano sono orgoglioso che sia stato inciso dall’etichetta Long Song Record.Unfortunately this recording is the last possibility to listen to these three musicians playing together: Rod Poole has been murdered in the 2007. This Vignes is the recording of the concert in Los Angeles to the Downtown Playhouse the 26th of July 2003 and in the back of the cd it’s proudly written “This Music Is Improvised.” All three musicians risk venturing themselves in the microtonal universe that the British guitarist Rod Poole had obsessively explored, playing on an open tuned instrument played with a violin’s bow. All three the musicians don’t belong to a musical tradition, having set aside from a long time concepts as “musical genre.” Well yes, Cline is known for being the guitarist of the Wilco, but saying he plays rock music would be a very limitative way to describe his job. McAuley has a more folk sound, but also this category doesn’t belong to him. And Poole apparently lived in a world of his own. “Vignes 1”, the first long improvisation, starts in calm way, in a rather conventional way, but then it changes into a hypnotic and strange, dark and bright piece where structure and rhythm are progressively remised for the exploration in pure sound, even if not always recognizable, of the guitar. “Vignes 2” returns to an atonal, but at the same time rhythmic improvisation with waving and dense sequences. “Vignes 3” brings the Acustic Guitar trio on adventurous paths, with Poole playing the bow on his strings. He doesn’t play as Jimmy Page or Raoul Björkenheim, but his sound has at times a sharp quality, almost painful, at times beautiful that doesn’t certainly leave indifferent.
Even if this music certainly is not for all the tastes, the musical explorations of the trio and the new perspectives offered by their acoustic guitars deserve a circumstantial listening and I am proud that has been produced by the Italian label Long Song Record

chitarraedintorni.blogspot.com – Mucho Acustica

Avevo già avuto a che fare con il senso dell’umorismo di Piero Bittolo Bon in occasione dell’ascolto del suo lavoro in duo con Simone Massaron “Massa Bon”, ero quindi già preparato a brani dal titolo curioso e a folate devianti di sassofoni lanciati a tutto vapore. Non ne sono rimasto deluso, Piero è un grande musicista e i suoi Pigneto Stompers, nome improbabile dietro cui si nascondono Simone Massaron alle chitarre, Federico Scettri alla batteria (sul canale sinistro), Massimiliano Sorrentini sempre alla batteria ma sul canale destro, coaudiuvati dal mitico basso elettrico “colemaniano” di Jamaaladeen Tacuma, sono partner formidabili, affiatati e carichi al punto giusto.
Free jazz, in salsa blues veneziana – milanese con aggiunte di funky torrido e condidi da una ritmica dal groove micidiale. Disco fantastico di musica rigorosamente improvvisata ad alta gradazione alcolica.
Come scrive lo stesso Jamaaladeen Tacuma nelle note del disco “Music is a Universal Language” e indipendentemente dalle origini geografiche e dalla formazione culturale dei musicisti qui impegnati il risultato è davvero notevole, ve ne consiglio l’ascolto dopo un paio di spritz veneziani per meglio predisporre le orecchie al favoloso cocktail di suoni e di note da cui sarete felicemente investiti.
Tra l’altro mentre scrivo questa recensione apprendo che sembra che il Comune di Venezia abbia messo al bando il free jazz con una ordinanza apposita indicando nelle cause i possibili effetti nocivi delle dissonanze musicali in esso contenute … forse una rappreseglia contro la chitarra magistrale di Massaron nel brano “The Day Sandro Bondi Stood Still”? Contro il sax torrido “Stoppani Stomp”? Nessuno lo sa, ma “Tamarrow Is The Question”e quindi lanciamo una “Tsar Bomba” e ascoltiamo il disco a tutto volume per le calli di Venezia! Da qualche parte Ornette Coleman sorride .. in modo armolodico ovviamente….Avevo già avuto a che fare con il senso dell’umorismo di Piero Bittolo Bon in occasione dell’ascolto del suo lavoro in duo con Simone Massaron “Massa Bon”, ero quindi già preparato a brani dal titolo curioso e a folate devianti di sassofoni lanciati a tutto vapore. Non ne sono rimasto deluso, Piero è un grande musicista e i suoi Pigneto Stompers, nome improbabile dietro cui si nascondono Simone Massaron alle chitarre, Federico Scettri alla batteria (sul canale sinistro), Massimiliano Sorrentini sempre alla batteria ma sul canale destro, coaudiuvati dal mitico basso elettrico “colemaniano” di Jamaaladeen Tacuma, sono partner formidabili, affiatati e carichi al punto giusto.
Free jazz, in salsa blues veneziana – milanese con aggiunte di funky torrido e condidi da una ritmica dal groove micidiale. Disco fantastico di musica rigorosamente improvvisata ad alta gradazione alcolica.
Come scrive lo stesso Jamaaladeen Tacuma nelle note del disco “Music is a Universal Language” e indipendentemente dalle origini geografiche e dalla formazione culturale dei musicisti qui impegnati il risultato è davvero notevole, ve ne consiglio l’ascolto dopo un paio di spritz veneziani per meglio predisporre le orecchie al favoloso cocktail di suoni e di note da cui sarete felicemente investiti.
Tra l’altro mentre scrivo questa recensione apprendo che sembra che il Comune di Venezia abbia messo al bando il free jazz con una ordinanza apposita indicando nelle cause i possibili effetti nocivi delle dissonanze musicali in esso contenute … forse una rappreseglia contro la chitarra magistrale di Massaron nel brano “The Day Sandro Bondi Stood Still”? Contro il sax torrido “Stoppani Stomp”? Nessuno lo sa, ma “Tamarrow Is The Question”e quindi lanciamo una “Tsar Bomba” e ascoltiamo il disco a tutto volume per le calli di Venezia! Da qualche parte Ornette Coleman sorride .. in modo armolodico ovviamente….

ondarock.it-Irrintzi

Xabier Iriondo è da sempre un personaggio eclettico e fuori dagli schemi, un musicista in grado di muoversi dal mainstream (alt)rock degli Afterhours agli esperimenti rumoristici più estremi. Un cultore della sei corde, che nel tempo si è persino dilettato nell’ideazione e commercializzazione di strumenti musicali ed effettistica per chitarra. Un musicista iperattivo: chi si era reso conto del fatto che non avesse ancora realizzato dischi come solista?
La sua carriera di chitarrista è legata ovviamente al successo della band di Manuel Agnelli, ma non secondaria è stata l’esperienza negli indimenticati Six Minute War Madness, negli altrettanto fondamentali A Short Apnea e in una serie di progetti paralleli, fra i quali vanno ricordati almeno i più recenti Shipwreck Bag Show e Uncode Duello, per non parlare delle innumerevoli collaborazioni, vedi le apparizioni sul palco con Damo Suzuki.

“Irrintzi” è un lavoro nel quale Iriondo serve un frullato delle proprie radici, accostando omaggi alle origini basche e cover di artisti che hanno segnato la sua formazione musicale.
Accanto a motivi tradizionali della sua terra, reinterpretati secondo la propria personalità, affianca la riproposizione di brani di artisti italiani e internazionali che svelano interessi a volte sorprendenti, tutto ovviamente rivisto attraverso la sensibilità sperimentaloide di Xabier.
Si va da “Cold Turkey” di John Lennon, suonata con gran parte degli Afterhours, a una “Reason To Believe” di Bruce Springsteen elettricamente disturbata, da Lucio Battisti e Francesco Currà, mirabilmente miscelati assieme, sino agli inaspettati Motorhead di Lemmy.
Un progetto che mostra la grande versatilità del musicista, in grado di far convivere richiami alla tradizione con l’avanguardismo sperimentale tipico di molte delle sue produzioni, con la chitarra sovente suonata in maniera poco canonica, magari con l’ausilio di piccoli utensili.

Riffoni selvaggi, piccole dosi di elettronica e strumenti etnici compongono un mosaico che solo una mente aperta e sensibile poteva così abilmente assemblare. “Irrintzi” si dimostra un lavoro per molti ma non per tutti, denso di momenti catartici dai quali vale la pena lasciarsi prendere la mano.
Il disco è una co-produzione Wallace – Phonometak – Santeria – Long Song – Brigadisco – Paintvox: gran dispiegamento di forze per rendere possibile l’operazione. “Irrintzi” è anche un oggetto artistico pubblicato (per il momento) esclusivamente su doppio vinile a tiratura limitata, due Lp ciascuno dei quali ha un lato inciso e un lato recante una stampa serigrafica.

Per consentirci di entrare in maniera più dettagliata nell’analisi delle singole tracce è intervenuto personalmente Xabier, che si è soffermato anche sui molti ospiti che hanno arricchito il disco.

Innanzitutto è interessante capire se “Irrintzi” è il frutto di session concentrate in pochi mesi, oppure il risultato di esperimenti registrati nel tempo e messi da parte in attesa di una collocazione appropriata.
Il lavoro legato a questo disco è iniziato cinque anni fa. Tassello per tassello, suono dopo suono, centellinando le idee sul concetto musicale e grafico, si è andato delineando il progetto globale dell’album.
Non avevo fretta, perché nel frattempo stavo portando avanti anche numerosi altri progetti musicali. Diciamo che nel 2012 si sono sviluppate le condizioni ideali, personali e artistiche affinché “Irrintzi” venisse completato e pubblicato.
Ho deciso di aprire il disco con “Elektraren Aurreskua”, un sentito regalo che ho voluto fare alle mie origini basche, evidenti nel mio nome. Una terra che ho evocato attraverso il suono di strumenti tradizionali, quali lo txitsu, il tum-tum e la alboka, suonati da Gaizka Sarrasola, un musicista basco che spazia dal folk alla musica di ricerca.
Il brano rappresenta l’ultimo saluto (“aurresku” in lingua basca) di una piccola bimba al proprio nonno.

La seconda traccia dà il titolo all’intero album…
La parola “Irrintzi” si riferisce a un urlo stridente, sonoro e prolungato, di un solo fiato, utilizzato nel folklore basco come espressione di felicità: un segnale ancestrale e al tempo stesso contemporaneo.
Nel brano che intitola il disco ci sono chitarre ricche di elettricità e la giusta dose di “sporcizia” che mette a nudo un impianto elettro-rock primitivo e debordante al tempo stesso. Per l’appunto un modo di combinare tradizione e modernità.

Poi tutto si calma con “Il cielo sfondato”…
Sì, in questo caso il percorso è guidato da una melodia semplice e ossessiva suonata con uno strumento indiano, lo Shahi Baaja. Il brano è stato meravigliosamente valorizzato dai contributi di Gianni Mimmo, raffinato ed eccelso sassofonista, oltre che carissimo amico, e di Paolo Tofani, storico chitarrista degli Area e infaticabile ricercatore e sperimentatore musicale, che con un fantastico solo finale è riuscito a dare vitalità e fantasia al tutto.

“Gernika Eta Bermeo” è una specie di “affare di famiglia”, e serve per non dimenticare una strage perfettamente tramandata dal celebre capolavoro di Pablo Picasso.
Mio padre, Karmel Iriondo Etxaburu, racconta quello che i suoi occhi di ragazzo/soldato hanno visto a Gernika (Guernica) nel 1937, il giorno dopo il primo bombardamento a tappeto della storia. Accompagno la sua voce con il Mahai Metak, un cordofono da me creato.

Poi la prima cover “rock” del disco: non ti nascondo che le tue scelte sono state in alcuni casi molto sorprendenti ed evidenziano una volta di più la tua grande versatilità, il tuo essere musicalmente onnivoro.
“Reason To Believe” è tratta da “Nebraska”, il disco acustico di Bruce Springsteen del 1982, adorato da tutti i suoi fan: fare una cover del Boss è sempre molto pericoloso…
Questo è l’album che preferisco del cantante del New Jersey, registrato con un quattro piste, una chitarra, un’armonica e la voce, in un momento di depressione e crisi esistenziale, a pochi passi dall’esplosione mediatica suscitata da “Born In The USA”. Racchiude l’anima essenziale e drammatica degli antieroi americani, all’interno della tradizione narrata da artisti quali Woody Guthrie. Paolo Saporiti ha cantato il brano rendendo precisamente il colore folk-blues di cui avevo bisogno per la mia versione “à la Suicide” del brano in questione.

Poi hai fatto una specie di mash-up.
“Preferirei piuttosto gente per bene gente per male” è un medley tra un brano di Francesco Currà e uno di Lucio Battisti.
“Preferirei piuttosto” è tratto dall’album “Rapsodia Meccanica” (1977) di Francesco Currà, poeta di fabbrica che alla fine degli anni Settanta lavorava come fresatore all’Ansaldo. La sua musica è pressoché sconosciuta ai più, ma il suo apporto in termini concreti e concettuali è stato enorme.
“Rapsodia Meccanica” è un episodio unico nel suo genere, nel quale confluiscono elementi di musica industriale, elettronica e contemporanea, tenuti insieme da testi surreali e personalissimi.
“Gente per bene e gente per male” è tratto dall’album “Il mio canto libero” (1972) di Lucio Battisti. Ho sempre amato le composizioni di Battisti/Mogol e ho pensato di utilizzare la seconda parte del brano in questione per completare il medley con Currà.
Senza l’aiuto e la forte personalità di Roberto Bertacchini e Cristiano Calcagnile sarebbe stato impossibile portare a termine quest’operazione di melange tra due cantautori tanto diversi ed unici.

Ora il brano che mi ha sorpreso di più: “The Hammer” è la traccia che chiude l’album “Ace Of Spades” dei Motörhead, anno di grazia 1980.
Lemmy Kilmilster è una delle più grandi macchine da guerra del rock’n’roll: amo il suono del suo basso e la sua idea di brani semplici al fulmicotone.
Una sintesi perfetta tra furore punk (espresso magistralmente anche dalla sua voce roca) ed energia metal. Lemmy ha sempre vissuto al limite degli eccessi con grande naturalezza, e la sua musica esprime perfettamente la vita che ha condotto.
Mi hanno accompagnato nella registrazione di questa cover Bruno Dorella e Stefania Pedretti, in arte Ovo. Sono decisamente convinto che questa versione sia riuscita soprattutto grazie al loro contributo e alla loro esperienza, maturata negli anni sui palchi, a suonare musiche ossessive, sature, distruttive ed oscure.

Poi si torna al folk della tua terra d’origine…
“Itziar En Semea” (traducibile letteralmente in “Il figlio di Itziar”) è un brano di musica basca folk tratto da un testo dello scrittore/politico Telesforo de Monzon. Suonato e cantato dal duo Pantxo eta Peio, nel 1975 divenne un inno antifranchista.
Il brano racconta la vicenda di un prigioniero politico basco torturato dalla polizia e del suo incontro/colloquio in carcere con la madre. Il primo ricordo che ho di questo brano risale al 1978: mio padre mi fece ascoltare in macchina un’audiocassetta comprata a un meeting di Herri Batasuna (il braccio politico dell’ETA). Tra i brani contenuti c’era anche “Itziar En Semea” e il ritmo e la melodia mi colpirono immediatamente. La versione che ho fatto di questa canzone parte da un concetto semplice: destrutturare l’apparato strumentale melodico/armonico, mantenere la melodia originale del testo e circondarla di trame ritmiche/rumorose a bassa fedeltà.

Come pensi di poter rappresentare dal vivo un disco così complesso e multiforme?
Farò un solo concerto di presentazione di “Irrintzi”, con ospiti vari, il 13 ottobre 2012 alla Cascina Torchiera di Milano. Il live sarà articolato sul disco, ma non solo, anche sulle varie esperienze di ricerca che ho sviluppato in questi ultimi cinque/sette anni. Di sicuro non sarà una semplice carrellata di brani eseguiti uno dopo l’altro.

E siamo arrivati alla fine del viaggio…
“Cold Turkey” è il secondo singolo di John Lennon solista, un brano scomodo che parla della sua disintossicazione dall’eroina nel 1969. Ho sempre amato i brani di minor successo dei grandi artisti, e questa canzone ebbe poca fortuna nelle classifiche americane e inglesi.
Tempo fa lessi che Lennon, quando restituì alla Regina d’Inghilterra l’onorificenza di Mbe (Membro dell’Impero Britannico), la accompagnò con un biglietto su cui era scritto “Le riconsegno questo Mbe come protesta contro il coinvolgimento della Gran Bretagna nell’affare Nigeria-Biafra, contro il nostro sostegno all’America in Vietnam e contro il fatto che Cold Turkey stia perdendo posti in classifica. Con affetto, John Lennon”.
Ho sempre ammirato l’ironia dell’ex-Beatles, il suo modo di affrontare temi delicati e spinosi e allo stesso tempo smarcarsi da tutto e da tutti. E comunque il riff di “Cold Turkey”, ancora oggi (a quarantatré anni dalla sua creazione) è così essenziale, primitivo ed efficace: rock’n’roll puro!
Ho pensato di farmi accompagnare in questa registrazione, che ho posizionato alla fine della tracklist, da alcuni amici che di rock’n’roll ne sanno qualcosa: Manuel, Giorgio e Roberto sono riusciti a catturarne lo spirito essenziale interpretando a meraviglia l’incedere ossessivo del brano, donandogli freschezza ed energia.

Ed è un po’ un ritorno a casa: con Agnelli, Prette e Dell’Era ritroviamo un po’ di Afterhours dentro il primo disco solista di Xabier Iriondo. Un altro pezzettino di storia nel percorso che sta compiendo la migliore musica indipendente italiana nel secondo millennio.

Xabier Iriondo è da sempre un personaggio eclettico e fuori dagli schemi, un musicista in grado di muoversi dal mainstream (alt)rock degli Afterhours agli esperimenti rumoristici più estremi. Un cultore della sei corde, che nel tempo si è persino dilettato nell’ideazione e commercializzazione di strumenti musicali ed effettistica per chitarra. Un musicista iperattivo: chi si era reso conto del fatto che non avesse ancora realizzato dischi come solista?
La sua carriera di chitarrista è legata ovviamente al successo della band di Manuel Agnelli, ma non secondaria è stata l’esperienza negli indimenticati Six Minute War Madness, negli altrettanto fondamentali A Short Apnea e in una serie di progetti paralleli, fra i quali vanno ricordati almeno i più recenti Shipwreck Bag Show e Uncode Duello, per non parlare delle innumerevoli collaborazioni, vedi le apparizioni sul palco con Damo Suzuki.

“Irrintzi” è un lavoro nel quale Iriondo serve un frullato delle proprie radici, accostando omaggi alle origini basche e cover di artisti che hanno segnato la sua formazione musicale.
Accanto a motivi tradizionali della sua terra, reinterpretati secondo la propria personalità, affianca la riproposizione di brani di artisti italiani e internazionali che svelano interessi a volte sorprendenti, tutto ovviamente rivisto attraverso la sensibilità sperimentaloide di Xabier.
Si va da “Cold Turkey” di John Lennon, suonata con gran parte degli Afterhours, a una “Reason To Believe” di Bruce Springsteen elettricamente disturbata, da Lucio Battisti e Francesco Currà, mirabilmente miscelati assieme, sino agli inaspettati Motorhead di Lemmy.
Un progetto che mostra la grande versatilità del musicista, in grado di far convivere richiami alla tradizione con l’avanguardismo sperimentale tipico di molte delle sue produzioni, con la chitarra sovente suonata in maniera poco canonica, magari con l’ausilio di piccoli utensili.

Riffoni selvaggi, piccole dosi di elettronica e strumenti etnici compongono un mosaico che solo una mente aperta e sensibile poteva così abilmente assemblare. “Irrintzi” si dimostra un lavoro per molti ma non per tutti, denso di momenti catartici dai quali vale la pena lasciarsi prendere la mano.
Il disco è una co-produzione Wallace – Phonometak – Santeria – Long Song – Brigadisco – Paintvox: gran dispiegamento di forze per rendere possibile l’operazione. “Irrintzi” è anche un oggetto artistico pubblicato (per il momento) esclusivamente su doppio vinile a tiratura limitata, due Lp ciascuno dei quali ha un lato inciso e un lato recante una stampa serigrafica.

Per consentirci di entrare in maniera più dettagliata nell’analisi delle singole tracce è intervenuto personalmente Xabier, che si è soffermato anche sui molti ospiti che hanno arricchito il disco.

Innanzitutto è interessante capire se “Irrintzi” è il frutto di session concentrate in pochi mesi, oppure il risultato di esperimenti registrati nel tempo e messi da parte in attesa di una collocazione appropriata.
Il lavoro legato a questo disco è iniziato cinque anni fa. Tassello per tassello, suono dopo suono, centellinando le idee sul concetto musicale e grafico, si è andato delineando il progetto globale dell’album.
Non avevo fretta, perché nel frattempo stavo portando avanti anche numerosi altri progetti musicali. Diciamo che nel 2012 si sono sviluppate le condizioni ideali, personali e artistiche affinché “Irrintzi” venisse completato e pubblicato.
Ho deciso di aprire il disco con “Elektraren Aurreskua”, un sentito regalo che ho voluto fare alle mie origini basche, evidenti nel mio nome. Una terra che ho evocato attraverso il suono di strumenti tradizionali, quali lo txitsu, il tum-tum e la alboka, suonati da Gaizka Sarrasola, un musicista basco che spazia dal folk alla musica di ricerca.
Il brano rappresenta l’ultimo saluto (“aurresku” in lingua basca) di una piccola bimba al proprio nonno.

La seconda traccia dà il titolo all’intero album…
La parola “Irrintzi” si riferisce a un urlo stridente, sonoro e prolungato, di un solo fiato, utilizzato nel folklore basco come espressione di felicità: un segnale ancestrale e al tempo stesso contemporaneo.
Nel brano che intitola il disco ci sono chitarre ricche di elettricità e la giusta dose di “sporcizia” che mette a nudo un impianto elettro-rock primitivo e debordante al tempo stesso. Per l’appunto un modo di combinare tradizione e modernità.

Poi tutto si calma con “Il cielo sfondato”…
Sì, in questo caso il percorso è guidato da una melodia semplice e ossessiva suonata con uno strumento indiano, lo Shahi Baaja. Il brano è stato meravigliosamente valorizzato dai contributi di Gianni Mimmo, raffinato ed eccelso sassofonista, oltre che carissimo amico, e di Paolo Tofani, storico chitarrista degli Area e infaticabile ricercatore e sperimentatore musicale, che con un fantastico solo finale è riuscito a dare vitalità e fantasia al tutto.

“Gernika Eta Bermeo” è una specie di “affare di famiglia”, e serve per non dimenticare una strage perfettamente tramandata dal celebre capolavoro di Pablo Picasso.
Mio padre, Karmel Iriondo Etxaburu, racconta quello che i suoi occhi di ragazzo/soldato hanno visto a Gernika (Guernica) nel 1937, il giorno dopo il primo bombardamento a tappeto della storia. Accompagno la sua voce con il Mahai Metak, un cordofono da me creato.

Poi la prima cover “rock” del disco: non ti nascondo che le tue scelte sono state in alcuni casi molto sorprendenti ed evidenziano una volta di più la tua grande versatilità, il tuo essere musicalmente onnivoro.
“Reason To Believe” è tratta da “Nebraska”, il disco acustico di Bruce Springsteen del 1982, adorato da tutti i suoi fan: fare una cover del Boss è sempre molto pericoloso…
Questo è l’album che preferisco del cantante del New Jersey, registrato con un quattro piste, una chitarra, un’armonica e la voce, in un momento di depressione e crisi esistenziale, a pochi passi dall’esplosione mediatica suscitata da “Born In The USA”. Racchiude l’anima essenziale e drammatica degli antieroi americani, all’interno della tradizione narrata da artisti quali Woody Guthrie. Paolo Saporiti ha cantato il brano rendendo precisamente il colore folk-blues di cui avevo bisogno per la mia versione “à la Suicide” del brano in questione.

Poi hai fatto una specie di mash-up.
“Preferirei piuttosto gente per bene gente per male” è un medley tra un brano di Francesco Currà e uno di Lucio Battisti.
“Preferirei piuttosto” è tratto dall’album “Rapsodia Meccanica” (1977) di Francesco Currà, poeta di fabbrica che alla fine degli anni Settanta lavorava come fresatore all’Ansaldo. La sua musica è pressoché sconosciuta ai più, ma il suo apporto in termini concreti e concettuali è stato enorme.
“Rapsodia Meccanica” è un episodio unico nel suo genere, nel quale confluiscono elementi di musica industriale, elettronica e contemporanea, tenuti insieme da testi surreali e personalissimi.
“Gente per bene e gente per male” è tratto dall’album “Il mio canto libero” (1972) di Lucio Battisti. Ho sempre amato le composizioni di Battisti/Mogol e ho pensato di utilizzare la seconda parte del brano in questione per completare il medley con Currà.
Senza l’aiuto e la forte personalità di Roberto Bertacchini e Cristiano Calcagnile sarebbe stato impossibile portare a termine quest’operazione di melange tra due cantautori tanto diversi ed unici.

Ora il brano che mi ha sorpreso di più: “The Hammer” è la traccia che chiude l’album “Ace Of Spades” dei Motörhead, anno di grazia 1980.
Lemmy Kilmilster è una delle più grandi macchine da guerra del rock’n’roll: amo il suono del suo basso e la sua idea di brani semplici al fulmicotone.
Una sintesi perfetta tra furore punk (espresso magistralmente anche dalla sua voce roca) ed energia metal. Lemmy ha sempre vissuto al limite degli eccessi con grande naturalezza, e la sua musica esprime perfettamente la vita che ha condotto.
Mi hanno accompagnato nella registrazione di questa cover Bruno Dorella e Stefania Pedretti, in arte Ovo. Sono decisamente convinto che questa versione sia riuscita soprattutto grazie al loro contributo e alla loro esperienza, maturata negli anni sui palchi, a suonare musiche ossessive, sature, distruttive ed oscure.

Poi si torna al folk della tua terra d’origine…
“Itziar En Semea” (traducibile letteralmente in “Il figlio di Itziar”) è un brano di musica basca folk tratto da un testo dello scrittore/politico Telesforo de Monzon. Suonato e cantato dal duo Pantxo eta Peio, nel 1975 divenne un inno antifranchista.
Il brano racconta la vicenda di un prigioniero politico basco torturato dalla polizia e del suo incontro/colloquio in carcere con la madre. Il primo ricordo che ho di questo brano risale al 1978: mio padre mi fece ascoltare in macchina un’audiocassetta comprata a un meeting di Herri Batasuna (il braccio politico dell’ETA). Tra i brani contenuti c’era anche “Itziar En Semea” e il ritmo e la melodia mi colpirono immediatamente. La versione che ho fatto di questa canzone parte da un concetto semplice: destrutturare l’apparato strumentale melodico/armonico, mantenere la melodia originale del testo e circondarla di trame ritmiche/rumorose a bassa fedeltà.

Come pensi di poter rappresentare dal vivo un disco così complesso e multiforme?
Farò un solo concerto di presentazione di “Irrintzi”, con ospiti vari, il 13 ottobre 2012 alla Cascina Torchiera di Milano. Il live sarà articolato sul disco, ma non solo, anche sulle varie esperienze di ricerca che ho sviluppato in questi ultimi cinque/sette anni. Di sicuro non sarà una semplice carrellata di brani eseguiti uno dopo l’altro.

E siamo arrivati alla fine del viaggio…
“Cold Turkey” è il secondo singolo di John Lennon solista, un brano scomodo che parla della sua disintossicazione dall’eroina nel 1969. Ho sempre amato i brani di minor successo dei grandi artisti, e questa canzone ebbe poca fortuna nelle classifiche americane e inglesi.
Tempo fa lessi che Lennon, quando restituì alla Regina d’Inghilterra l’onorificenza di Mbe (Membro dell’Impero Britannico), la accompagnò con un biglietto su cui era scritto “Le riconsegno questo Mbe come protesta contro il coinvolgimento della Gran Bretagna nell’affare Nigeria-Biafra, contro il nostro sostegno all’America in Vietnam e contro il fatto che Cold Turkey stia perdendo posti in classifica. Con affetto, John Lennon”.
Ho sempre ammirato l’ironia dell’ex-Beatles, il suo modo di affrontare temi delicati e spinosi e allo stesso tempo smarcarsi da tutto e da tutti. E comunque il riff di “Cold Turkey”, ancora oggi (a quarantatré anni dalla sua creazione) è così essenziale, primitivo ed efficace: rock’n’roll puro!
Ho pensato di farmi accompagnare in questa registrazione, che ho posizionato alla fine della tracklist, da alcuni amici che di rock’n’roll ne sanno qualcosa: Manuel, Giorgio e Roberto sono riusciti a catturarne lo spirito essenziale interpretando a meraviglia l’incedere ossessivo del brano, donandogli freschezza ed energia.

Ed è un po’ un ritorno a casa: con Agnelli, Prette e Dell’Era ritroviamo un po’ di Afterhours dentro il primo disco solista di Xabier Iriondo. Un altro pezzettino di storia nel percorso che sta compiendo la migliore musica indipendente italiana nel secondo millennio.

Irrintzi-BlowUp

Dopo oltre vent`anni di carriera e collaborazioni con chiunque abbia avuto un minimo credito nell’underground italiano, pare incredibile che questo sia il primo disco solista di Xabier lriondo. Un disco che mobilita una cordata mai vista di etichette in associazione e che intende farsi ricordare a partire dal formato, 2 vinili incisi su una faccia sola con serigrafia originale sull’altra. E la musica, direte voi. Beh, la musica non può che essere di qualità, conoscendo il curriculum, la sensibilità e la bravura di lriondo; e potremmo azzardare che “lrrintzi” [parola che nei Paesi Baschi, terra in cui il Nostro ha origini anagrafiche, significa grosso modo ‘urlo stridente e prolungato] sia in qualche modo una summa degli stili percorsi da Xabier nella sua articolata carriera. Il primo vinile, composto da I» inediti, è quasi perfetto: l’apertura di Elektraren Aurreskua è un inizio straordinario, flauto world, corde dissonanti e cori, probabilmente un riferimento alla tradizione basca, con un risultato complessivo che potrebbe far pensare ai Traffic di “Mr Fantasy” in versione etno. Si cambia subito dopo con la title track, lunga iterazione elettronica che fa pensare alle frequentazioni kraute dei Can e che poi ha una deriva rumorista. Ancora più originale, e certamente uno dei vertici del disco, è Il cielo sfondato, riff acustico sognante e un bellissimo, schizofrenico solo di chitarra. L’unico brano originale non altrettanto incisivo, poiché troppo poggiato su un lungo monologo recitato in spagnolo, è Gerníka eta Bermeo, anche se va detto che la base è piuttosto interessante.
ll secondo disco è forse la vera sorpresa, in quanto consta di›5 cover assolutamente eterogenee, l’unica delle quali tutto sommato poco sorprendente e nella norma è la lennoniana Cold Turkey, che chiude l’album. Sulle altre canzoni invece lo stravolgimento è notevole. La prima è Reason To Believe di Bruce Springsteen e affascina senza condizioni: diventa un rock spoglio e ipnotico che potrebbe richiamare i Primal Scream su una dorsale elettronica. Ci sono poi due pezzi violenti: se l’hard core stoogesiano di The Hammer dei Motörhead è comprensibile (ma quanto spacca!), l’electro in giapponese [?] in puro stile Boredoms di Itziar en Semea che pare campionare Aphex Twin, rivoluziona totalmente una canzone che appartiene al repertorio della musica popolare. Il pezzo forte pero e senza dubbio Preferirei piuttosto gente per ben gente per male, che miscela un testo di Francesco Currà con Gente per bene gente per male di Lucio Battisti; il testo, una filippica di lucida follia, un crescendo surreale su una base musicale volutamente poco appariscente, è memorabile. Nel complesso abbiamo qui un disco di positiva sconnessione e deliberata libertà stilistica Forte delle sue imperfezioni, pare costituzionalmente destinato a rimanere un gioiello ad appannaggio di pochi. Ma se avrete la fortuna di scoprirlo potrete innamorarvene perdutamente.Dopo oltre vent`anni di carriera e collaborazioni con chiunque abbia avuto un minimo credito nell’underground italiano, pare incredibile che questo sia il primo disco solista di Xabier lriondo. Un disco che mobilita una cordata mai vista di etichette in associazione e che intende farsi ricordare a partire dal formato, 2 vinili incisi su una faccia sola con serigrafia originale sull’altra. E la musica, direte voi. Beh, la musica non può che essere di qualità, conoscendo il curriculum, la sensibilità e la bravura di lriondo; e potremmo azzardare che “lrrintzi” [parola che nei Paesi Baschi, terra in cui il Nostro ha origini anagrafiche, significa grosso modo ‘urlo stridente e prolungato] sia in qualche modo una summa degli stili percorsi da Xabier nella sua articolata carriera. Il primo vinile, composto da I» inediti, è quasi perfetto: l’apertura di Elektraren Aurreskua è un inizio straordinario, flauto world, corde dissonanti e cori, probabilmente un riferimento alla tradizione basca, con un risultato complessivo che potrebbe far pensare ai Traffic di “Mr Fantasy” in versione etno. Si cambia subito dopo con la title track, lunga iterazione elettronica che fa pensare alle frequentazioni kraute dei Can e che poi ha una deriva rumorista. Ancora più originale, e certamente uno dei vertici del disco, è Il cielo sfondato, riff acustico sognante e un bellissimo, schizofrenico solo di chitarra. L’unico brano originale non altrettanto incisivo, poiché troppo poggiato su un lungo monologo recitato in spagnolo, è Gerníka eta Bermeo, anche se va detto che la base è piuttosto interessante.
ll secondo disco è forse la vera sorpresa, in quanto consta di›5 cover assolutamente eterogenee, l’unica delle quali tutto sommato poco sorprendente e nella norma è la lennoniana Cold Turkey, che chiude l’album. Sulle altre canzoni invece lo stravolgimento è notevole. La prima è Reason To Believe di Bruce Springsteen e affascina senza condizioni: diventa un rock spoglio e ipnotico che potrebbe richiamare i Primal Scream su una dorsale elettronica. Ci sono poi due pezzi violenti: se l’hard core stoogesiano di The Hammer dei Motörhead è comprensibile (ma quanto spacca!), l’electro in giapponese [?] in puro stile Boredoms di Itziar en Semea che pare campionare Aphex Twin, rivoluziona totalmente una canzone che appartiene al repertorio della musica popolare. Il pezzo forte pero e senza dubbio Preferirei piuttosto gente per ben gente per male, che miscela un testo di Francesco Currà con Gente per bene gente per male di Lucio Battisti; il testo, una filippica di lucida follia, un crescendo surreale su una base musicale volutamente poco appariscente, è memorabile. Nel complesso abbiamo qui un disco di positiva sconnessione e deliberata libertà stilistica Forte delle sue imperfezioni, pare costituzionalmente destinato a rimanere un gioiello ad appannaggio di pochi. Ma se avrete la fortuna di scoprirlo potrete innamorarvene perdutamente.

Irrintzi-Buscadero

L’instancabile XABIER IRIONDO – non basterebbero queste due pagine per tener conto di tutte le band e di tutte le collaborazioni a cui ha preso parte – non contento di essere ormai tornato a tempo pieno negli Afterhours e di avere appena pubblicato un 10′ col compagno di tante avventure Paolo Cantù, esordisce col suo primo, vero e proprio album intestato a suo nome. Irrinizi- che in basco, sua terra d’origine, rappresenta un urio stridente, sonoro e prolungato – è un lussuoso doppio LP con due facciate incise e due serigrafate sul vinile. Ad accompagnarlo, amici vecchi e nuovi, da alcuni Afterhours (Agnelli, Prette, Dell’Era) a Roberto Bertacchini, da Paolo Tofani degli Area al due OvO. per arrivare al sassofonista Gianni Mimmo, a Cristian Calcagnile, al musicista basco Gaizka Sarrasola. In quasi egual misura specchio del suo essere musicista rock e di ricerca.
Irrintzi è un continuo turbinio di creatività, sperimentazione, ripulsa delle soluzioni più ovvie. E così Elektraren Aurreskua è una sorta di etno-popular music dove si mescolano voci, suoni, field recordings, la titletrack un parossistico rock pulsante, come dei Sukzide mai cosi kraut, resi folli dalle anfetamine, ll Cielo Sfondato un acid-rock screziato da intromissioni free ed indiane. In Gernika Eta Bermeoo, una voce ricorda il bombardamento di Guernica. assecondata dalle sciabolate e dal suoni che come in un film scorrono sotto di essa, soluzione che ritorna in parte nell’invettiva di Preferirei Piuttosto Gente per Bene Gente per Male. The Hammer è potentissima e agghiacciante (in compagnia di Dorella e Pedretti degli OvO), mentre Itziar En Semea è tutta un fiorir di sibili. Rimane da dire delle due cover in scaletta: una Reason To Believe trasformata in un macilento grumo d’elettricità ed una Cold Turkey strepitosa, resa in maniera più classicamente rock.L’instancabile XABIER IRIONDO – non basterebbero queste due pagine per tener conto di tutte le band e di tutte le collaborazioni a cui ha preso parte – non contento di essere ormai tornato a tempo pieno negli Afterhours e di avere appena pubblicato un 10′ col compagno di tante avventure Paolo Cantù, esordisce col suo primo, vero e proprio album intestato a suo nome. Irrinizi- che in basco, sua terra d’origine, rappresenta un urio stridente, sonoro e prolungato – è un lussuoso doppio LP con due facciate incise e due serigrafate sul vinile. Ad accompagnarlo, amici vecchi e nuovi, da alcuni Afterhours (Agnelli, Prette, Dell’Era) a Roberto Bertacchini, da Paolo Tofani degli Area al due OvO. per arrivare al sassofonista Gianni Mimmo, a Cristian Calcagnile, al musicista basco Gaizka Sarrasola. In quasi egual misura specchio del suo essere musicista rock e di ricerca.
Irrintzi è un continuo turbinio di creatività, sperimentazione, ripulsa delle soluzioni più ovvie. E così Elektraren Aurreskua è una sorta di etno-popular music dove si mescolano voci, suoni, field recordings, la titletrack un parossistico rock pulsante, come dei Sukzide mai cosi kraut, resi folli dalle anfetamine, ll Cielo Sfondato un acid-rock screziato da intromissioni free ed indiane. In Gernika Eta Bermeoo, una voce ricorda il bombardamento di Guernica. assecondata dalle sciabolate e dal suoni che come in un film scorrono sotto di essa, soluzione che ritorna in parte nell’invettiva di Preferirei Piuttosto Gente per Bene Gente per Male. The Hammer è potentissima e agghiacciante (in compagnia di Dorella e Pedretti degli OvO), mentre Itziar En Semea è tutta un fiorir di sibili. Rimane da dire delle due cover in scaletta: una Reason To Believe trasformata in un macilento grumo d’elettricità ed una Cold Turkey strepitosa, resa in maniera più classicamente rock.

Irrintzi

Si intitola “IRRINTZI”, che in lingua basca rappresenta un urlo stridente, sonoro e prolungato, di un solo fiato, il primo album di Xabier Iriondo, il primo album ‘solista’ dopo 20 anni di carriera.
La musica tradizionale basca, il rock e le sue derive e la sperimentazione sonora sono i comuni denominatori di questo disco che vuole essere soprattutto un omaggio di Xabier alle sue radici e alle sue passioni. Un disco a suo modo intimo e intimista dove Iriondo ripercorre, fa rivivere e ‘rivela’ fatti, luoghi, persone e musica che hanno reso possibile il suo percorso musicale e di vita. In questo viaggio Xabier e’ stato accompagnato da alcuni musicisti di differenti aree musicali: membri di Afterhours (Agnelli, Prette, Dell’Era), Paolo Tofani (AREA), Roberto Bertacchini (Starfuckers), Cristiano Calcagnile (S.Bollani), Bruno Dorella e Stefania Pedretti (OVO), Gianni Mimmo (raffinato sax soprano), Gaizka Sarrasola (musicista basco che spazia dal folk alla musica di ricerca).Si intitola “IRRINTZI”, che in lingua basca rappresenta un urlo stridente, sonoro e prolungato, di un solo fiato, il primo album di Xabier Iriondo, il primo album ‘solista’ dopo 20 anni di carriera.
La musica tradizionale basca, il rock e le sue derive e la sperimentazione sonora sono i comuni denominatori di questo disco che vuole essere soprattutto un omaggio di Xabier alle sue radici e alle sue passioni. Un disco a suo modo intimo e intimista dove Iriondo ripercorre, fa rivivere e ‘rivela’ fatti, luoghi, persone e musica che hanno reso possibile il suo percorso musicale e di vita. In questo viaggio Xabier e’ stato accompagnato da alcuni musicisti di differenti aree musicali: membri di Afterhours (Agnelli, Prette, Dell’Era), Paolo Tofani (AREA), Roberto Bertacchini (Starfuckers), Cristiano Calcagnile (S.Bollani), Bruno Dorella e Stefania Pedretti (OVO), Gianni Mimmo (raffinato sax soprano), Gaizka Sarrasola (musicista basco che spazia dal folk alla musica di ricerca).